L’INGHILTERRA

DAI TUDOR

AGLI STUART  

 

 

MICHELE E. PUGLIA

 

 

PARTE SECONDA

 

 

SOMMARIO: ELISABETTA RICONOSCIUTA REGINA DAL PARLAMENTO;  NELLA VITA DI ELISABETTA APPARE THOMAS SEYMUR; ELISABETTA COINVOLTA NEL COMPLOTTO DEI PROTESTANTI CONTRO LA REGINA MARIA; ELISABETTA AD HATFIELD DEDITA AGLI STUDI LE PRIME PROPOSTE DI MATRIMONIO; RIFIUTO DEL PAPA DI RICONOSCERE ELISABETTA REGINA E LA PROPOSTA DI MATRIMONIO DI FILIPPO II; PRIMI SUCCESSI POLITICI ELISABETTA RISOLVE I PROBLEMI CON FRANCIA E SCOZIA; SFARZO E SPESE DI ELISABETTA LE SUE RISPOSTE ALLE PROPOSTE DI MATRIMONIO VISITA A CAMBRIDGE E OXFORD; I PIRATI PONGONO LE BASI DELLE COLONIE E DELL’IMPERO; IL COMPLOTTO DI BABINGTON PER ASSASSINARE ELISABETTA IL PROCESSO E LA CONDANNA DI MARIA STUARDA; L’ULTIMA FASTOSA AMBASCIATA DI CHARLES BIRON RICEVUTA DA ELISABETTA E LA SUA ULTIMA SFURIATA; LA VITA LICENZIOSA DI ELISABETTA DESCRITTA DA MARIA STUARDA E LA CRISI COLLERICA AVUTA DOPO LA SUA ESECUZIONE;  MARIA STUARDA LA VITA PARALLELA CON ELISABETTA SEGNATA DAL SUO TRAGICO DESTINO; LE PRIME ESPERIENZE NEGATIVE DI MARIA CON KNOX IL TRIBUNO RIFORMATORE DI SCOZIA; ALLA CORTE SCOZZESE GIUNGE IL BEL DARNLEY MALIZIOSO OMAGGIO DI ELISABETTA; DAVIDE RICCIO ASSASSINATO IN PRESENZA DELLA REGINA INCINTA; BOTHWELL LA NUOVA PASSIONE DI MARIA E L’ASSASSINIO DI DARNLEY; LE DISASTROSE CONSEGUENZE DEL MATRIMONIO DI MARIA CON BOTHWELL; GIACOMO I DI SCOZIA FINALMENTE RE D’INGHILTERRA E LA CONGIURA DELLE POLVERI;  LA FINE DELLA SFORTUNATA DINASTIA DEGLI STUART.

 

 

 

ELISABETTA

RICONOSCIUTA

REGINA

 DAL PARLAMENTO

 

 

 

A

lla morte della regina Maria (1558) Elisabetta si trovava lontana dalla Corte, nella reggia di campagna a Hartfield, in stato di quasi prigionia, tra mille occhi che la spiavano, sospettata del suo coinvolgimento nella congiura ordita contro Maria dai protestanti, in seguito al trattato (1554), per il suo matrimonio con Filippo II di Spagna. osteggiato, come vedremo, dai protestanti.       

Elisabetta aveva venticinque anni e diveniva regina per meriti propri, piuttosto che per le leggi del regno, passati tra varie vicissitudini ordite contro di lei fino all’assassinio e con una solida preparazione di studi e di esperienze, che l’avevano formata nel carattere e nella personalità.  

Esile nella persona e non bella nelle fattezze del viso per il naso adunco, Elisabetta aveva occhi penetranti che sprigionavano un magnetismo che colpiva la singola persona o le intere folle plaudenti: insomma aveva qualcosa di più della bellezza fisica, il fascino.

Era la personificazione dell’intelligenza a tutto campo. Il suo pensiero penetrava come una lama, concetti, idee e argomenti che, per quanto potessero essere ostici, per lei, non serbavano angoli oscuri.

Aveva spiccato il senso della teatralità, e tutto per lei costituiva un gioco, nell’amore come nell’arte di regnare e ancor più, nella sottile arte della diplomazia ed era testarda ed eternamente indecisa,

Quanto agli studi aveva avuto una preparazione considerevole nelle lingue e nelle scienze; a dodici anni conosceva la geografia, la cosmologia, le matematiche,  l’architettura, la pittura, l’aritmetica, la storia, la meccanica, con grande ammirazione degli insegnanti, meravigliati dal fatto che una bambina potesse apprendere tante cose.

Nelle lingue aveva facilità di apprendimento e aveva appreso il latino da Bingast, il suo precettore, apprendendolo così bene che i personaggi eruditi che la visitavano, avevano piacere di parlarle in questa lingua. Alla stessa maniera aveva appreso l’italiano, il francese lo spagnolo e il fiammingo, che parlava e scriveva in ciascuna di esse con naturalezza; amava invece poco la poesia che considerava come un divertimento inutile, preferendo la storia e la  politica che leggeva in tutte le lingue, dedicandovi tre ore al giorno e le altre ore diversamente impegnate (tutti i figli di Enrico erano dotati di intelletto, Maria, era stato detto, ancor più di Elisabetta ed Edoardo discettava fluentemente in latino).

Quanto alle esperienze di vita che le avevano formato il carattere, aveva dovuto subire gli alti e bassi del padre Enrico VIII che, nel diseredare  Maria (1535), dichiarandola incapace di succedergli, disponeva la legittimità di  Elisabetta come erede della Corona. Ma, quando dopo l’esecuzione di Anna Bolena (v. P. I), Enrico VIII aveva sposato Jane Seymur, faceva dichiarare dal Parlamento (1536) la esclusione dalla successione di ambedue le principesse, disponendo che sarebbero succeduti i soli figli della (nuova) regina, secondo il loro rango. La esclusione delle due principesse era ulteriormente confermata con un altro atto del Parlamento dello stesso anno.

Dopo il matrimonio di Enrico con Anna di Cleves (1540), per il quale il re si era rifiutato di consumare il matrimonio (v. P.I), Anna aveva accettato il divorzio (pronunziato dalla Chiesa e dal Parlamento), e si era trovata così bene in Inghilterra da aver deciso di non tornare in Germania. Reintegrata nel titolo di principessa, Enrico le aveva accordato per dimora una sua casa di campagna, con diecimila scudi di rendita, oltre alle spese ordinarie per la servitù necessaria per servirla onorevolmente.

Ma, fatto singolare, Anna aveva conosciuto Elisabetta (che aveva sette anni) e, dopo averla vista due sole volte, l’aveva trovata così piacevole e piena di spirito, da aver chiesto ad Enrico di volerla avere con sé; Enrico le aveva risposto che avrebbe potuto vederla ogni tanto, ma Anna voleva che andasse ad abitare con lei e questo permesso non le era rifiutato.

Intanto Enrico sposava Catterina Howard, cugina di Anna Bolena, che nutriva delle tenerezze nei confronti di Elisabetta e Caterina, per il giorno delle nozze, aveva voluto avere a tavola Elisabetta seduta di fronte a lei; e il giorno della sua incoronazione le aveva fatto riservare un posto speciale durante la cerimonia. Anche la nuova regina aveva espresso il desiderio di avere Elisabetta con sé, ma la piccola Elisabetta aveva fatto pregare il padre di lasciarla presso la principessa di Cleves (Leti, Vie d’Elizabeth d’Angleterre) .

Il rapporto del re con la nuova regina non era durato neanche tanto, in quanto Cateria Howard (v. P.I), saliva sul patibolo nella piazza della Torre (1542). Il re, che non riusciva a star solo, aveva  puntato i suoi occhi su Caterina Parr, vedova del barone di Latimer, sorella di Guglielmo Parr, conte di Essex.

La Parr, vista la fine che avevano fatto le sue mogli, aveva detto al re che preferiva essere la sua concubina, piuttosto che la moglie;  ma il re la sposò ugualmente e la fece incoronare.

Caterina Parr, prima di sposare Enrico, aveva avuto modo di conoscere Elisabetta di cui ammirava lo spirito e le maniere e dopo essere salita al trono (1543) chiedeva al re di far venire Elisabetta (che aveva dieci anni) a Withehall; ma Anna di Cleves se ne dispiacque e il re decise che la bambina potesse andare a passare delle giornate settimanali da lei e a Witehall le fu riservato un appartamento.

Agli inizi del 1544, Enrico faceva rivedere dal Parlamento le disposizioni sulla  successione, disponendo che nel caso il principe Edoardo (nato da Jane Seymur 1537), fosse morto senza figli legittimi, o che egli stesso non ne avesse avuti, sarebbe stata la principessa Maria a prendere la corona; e se questa principessa fosse morta senza figli o per violazione delle leggi del regno .... la corona sarebbe stata assegnata alla principessa Elisabetta e suoi eredi; e in caso di indegnità la corona sarebbe andata a chi il re avrebbe nominato nel suo testamento. Così le due principesse erano state reintegrate nel loro ruolo di eredi, con l’assegnazione di ufficiali e domestici, appoggiate, Maria dai cattolici ed Elisabetta dai riformati (1545).  

                                                                                                   

  

 

NELLA VITA

DI ELISABETTA

APPARE

THOMAS SEYMUR

                                                                                                               

 

L

e cose erano a questo punto quando (1547) morto Enrico VIII saliva al trono Edoardo VI, di dieci anni, mentre a Corte appariva il giovane ammiraglio Thomas Seymour, fratello del reggente Edward, conte di Hertford (fratelli di Jane e zii del piccolo re), il quale autonomamente si concedeva la nomina di duca e tutore ed esecutore testamentario del re Edoardo VI.  

Thomas. giovane dal fisico prestante e dal carattere brillante, con il fratello che come tutore sostituiva il re e lui ammiraglio della flotta inglese, pieno di ambizione, aveva pensato a un matrimonio prestigioso che potesse portarlo sul trono.

Escludendo Maria che non era di bell’aspetto ed era di qualche anno più vecchia di lui, aveva rivolto le sue attenzioni verso Elisabetta, che non aveva ancora compiuti quattordici anni, ma aveva un giudizio più solido di una donna di maggiore età.

Era appena morto il re e Thomas senza rispettare il periodo di lutto, le scriveva una lettera appassionata con cui manifestava il suo desiderio di sposarla; Elisabetta non ne fu sorpresa, sapendo che in Inghilterra avvenivano matrimoni tra semplici gentiluomini e le figlie e sorelle dei loro re. Ma, attempata com’era, gli rispose di non avere ancora né l’età, né l’inclinazione per pensare al matrimonio, aggiungendo che non avrebbe mai creduto di dover parlare di questo argomento, quando doveva pensare a piangere la morte del padre. Aggiungendo: “Prenderò questa decisione quando sarò divenuta donna, nella giusta età da marito; permettete di dirvi francamente che non vi è nessun’altra persona che abbia tanta stima per i vostri meriti di me ...e voglio avere il piacere di  conservare l’attuale nostro rapporto, senza entrare nella stretta confidenza del matrimonio”.

Seymur, dopo questo elegante rifiuto, non si perse d’anime e si mise a corteggiare la regina dotaria Caterina, che aveva tre anni più di lui, la quale, alla proposta dell’ammiraglio di sposarla,  aveva risposto  con favore alla richiesta, dicendo che “aveva passato la sua giovinezza con un marito vecchio e malato (passando le sue giornate tenendo in grembo la gamba malata di Enrico VIII ! ndr.) e per lei non  sarebbe stato spiacevole passare la sua vita con un altro, giovane e vigoroso”. Dopo aver sottoscritto gli accordi matrimoniali (trentaquattro giorni dopo la morte del re), qualche mese dopo celebrarono le loro nozze.

L’ammiraglio, con questo matrimonio affrettato, aveva suscitato dei malumori ed era stato accusato di non aver rispettato il periodo obbligatorio di vedovanza della sposa, in quanto nel caso fosse rimasta incinta, non si sarebbe saputo se il figlio fosse suo o del defunto re. Elisabetta, dal suo canto, ne era rimasta dispiaciuta per due mtotivi, il primo perché Seymur aveva offeso la memoria del re sposandosi quando, per così dire, il re non era stato ancora interrato; il secondo, per il  comportamento tenuto da Caterina l’indomani della morte del re, in quanto, egli, recatosi a porgere le condoglianze, invece di riceverlo nella sala delle visite, lo aveva ricevuto nel suo gabinetto privato, trattenendosi con lui lungamente e comportandosi con lui in maniera impudica.

La principessa Maria, ancora più sensibile, ne era rimasta più dispiaciuta in quanto, come erede presuntiva alla corona, si sentiva più obbligata a deplorare il matrimonio che disonorava la memoria del padre.

Caterina abitava a Chelsea dove Thomas era andato ad abitare e qui si era trasferita (1547-48) anche Elisabetta con la inseparabile Kate, gli  insegnanti  e le giovani dame di compagnia.

Abitando nello stesso palazzo, Thomas che aveva trentacinque anni (*) aveva preso l’abitudine al mattino (indossando la sola camicia da notte), di recarsi, da Elisabetta, prima che si fosse vestita (non indossando alcun indumento, come si usava all’epoca), per augurarle il buongiorno; ... ma non si fermava qui, perché, scherzoso e licenzioso, giocava con la fanciulla dandole dei colpetti sulle spalle e sul sedere oppure, aperte le tende, saltava sul letto e lei strillava e cercava di nascondersi sotto le coperte. Alla fine, quei giochi che creavano intimità e davano un certo piacere, erano divenuti tali che la fanciulla, tra un gioco e l’altro e tra una sculacciata e l’altra, perdeva la sua  verginità.

Elisabetta pare che in quel periodo, fosse rimasta incinta e avrebbe abortito in circostanze misteriose: da allora era rimasta sterile, ciò che le darà in seguito la possibilità di vantare la sua verginità, certamente non intesa come lei  voleva quando parlava di “vergine regina”; (v. in Art. Rinascimento magico alla corte di Elisabetta); vale a dire quella pubblica “idealizzata”. Invece, quella derivante dalla sua sterilità, a lei, durante il suo lungo regno, avrebbe dato la possibilità di avere molteplici amori (i maligni la ritenevano “naturalmente portata al vizio, ereditato dalla madre”!), da aver potuto avere con i propri amanti rapporti liberi e soddisfare tutte le voglie di un libero amore (come le rinfaccerà Maria Stuarda nella lettera di fiele che le aveva scritto durante la sua prigionia, come si vedrà più avanti).

 Caterina Parr in quel periodo (1548) era rimasta incinta e metteva alla luce una bambina; durante il parto non stava bene e vaneggiava e inveiva contro il marito che cercava di consolarla; ma lei lo accusava di averle inflitto moltissime dolorose umiliazioni e il 5 settembre, tra i vaneggiamenti, spirava;, che, libero, mirava a sposare Elisabetta; erno sorti dei sospetti di avvelenamento da parte del marito, avvalorato dalla circostanza che Thomas le aveva fatto firmare il testamento sul letto di morte e lei gli aveva lasciato il grosso delle sue sostanze: ma i sospetti erano rimasti tali.

Thomas sentendosi libero di dar sfogo alla sua ambizione, nella sua incoscienza, aveva deciso di rapire Edoardo dal quale era riuscito a conquistarsi le simpatie (dandogli di nascosto del denaro), per fargli fare ciò che lui voleva; vale a dire sposare Elisabetta e privare il fratello dell’incarico di Protettore, in modo da assumere la direzione degli affari del regno.

Egli disponeva di un’armata di diecimila uomini  con molti nobili che lo appoggiavano; la sua giustificazione era quella di difendere la libertà del re e della Nazione. Una notte (agli inizi del 1549) introdottosi nel palazzo reale si era diretto verso la camera del re, eludendo la sorveglianza, ma giunto davanti alla porta della stanza dove Edoardo dormiva, il cane che faceva la guardia, si mise ad abbaiare dando l’allarme: Thomas inutilmente lo uccideva, sparandogli un colpo con la sua pistola, ma nel frattempo arrivavano le guardie e lo arrestavano per ordine del fratello Protettore e fu condotto alla Torre.

Fu nominata la commissione giudicante che per la complessità del processo fece intervenire il Parlamento e istruita la causa, dopo un discorso del Protettore in cui sottolineava di essere estremamente dispiaciuto della disgrazia in cui era precipitato il fratello e che lui aveva fatto ogni sforzo per distoglierlo; che la persona del suo principe doveva essergli più cara del proprio sangue e che lui preferiva gli interessi del suo re a quelli di suo fratello e dei propri figli, era emessa (27 Gennaio 1550) la sentenza di condanna e l’esecuzione ebbe luogo nella piazza della Torre.  

Questa fu la fine di Thomas Seymur, Ammiraglio d’Inghilterra, “i cui disegni erano stati vasti e lo spirito grande ed elevato, l’umore violento e l’ambizione smisurata”. Quando Elisabetta apprese la notizia disse “che era morto un uomo di grandissimo spirito ma di poco giudizio... e non lasciò trasparire il dispiacere della disgrazia”.

Il Lord Protettore, duca di Sommerset, riteneva che i guai che il fratello gli aveva procurato fossero finiti; ma il Parlamento era irritato nel vedere che gli affari con la Scozia, con la Francia e quelli del regno, pieno di disordini e rivolte, andavano male e imputava tutto ciò alla loro pessima conduzione da parte del lord Protettore.

Il risentimento era tale che gli fu mandato il conte di Sussex per arrestarlo e condurlo alla Torre, dove fu processato e, abbandonato dai parenti e dagli  amici, in particolare, dai più favoriti, fu condannato a morte; la sua esecuzione ebbe luogo sulla stesso patibolo dove era avvenuta l’esecuzione del fratello.

Le sue grandi qualità avrebbero merìtato un migliore e più glorioso destino, ma nessuno come lui era stato tanto detestato dal popolo; in particolare i cattolici (aveva dato a Edoardo precettori nemici della Chiesa di Roma), lo ritenevano un loro grande nemico e si auguravano che senza di lui si sarebbero risollevati e ne gioirono: Ma dovettero attendere ancora tre anni, fino a quando non fosse morto Edoardo VI e non fosse salita al trono Maria, detta la Cattolica.

Prima che Maria salisse al trono, si era presentato uno strano intermezzo dovuto alla circostanza che per la riforma preparata da Edoardo nel suo testamento, aveva escluso le due sorelle, Maria perché cattolica ed Elisabetta perché aveva dato l’impressione di essere papista per i buoni rapporti che (all’epoca) la univano a Maria, e perché non essendosi chiaramente dichiarata per i protestanti, si barcamenava tra gli uni e gli altri!

Chi aveva manovrato per questa esclusione nel testamento era stato John Dudley, duca di Northumberland, il più grande e potente signore del reame, che aveva maritato il figlio Guilford con Jean Grey, figlia del duca di Suffolk e pronipote di Enrico VIII.

Alla morte di Edoardo, Northumberland, adunato il governo della città a Greenwich, sulla base del testamento, faceva eleggere regina, Jean Grey, una ragazza normale, senza aspirazioni e contro la sua stessa volontà. Mentre  Elisabetta trovava il suo rifugio mettendosi a letto, lamentando una forte colica, Maria fu portata al castello di Framlingham a ottanta miglia da Londra, nella provincia di Suffolk, dove Northumberland era odiato.

Qui fu riconosciuta regina e furono mandati corrieri a Londra a richiedere ai magistrati e ufficiali il riconoscimento ufficiale; riconosciuta dalle province di Suffolk e Norfolk, da Londra Northumberland, non potendo sostenere con le armi il partito di Jean, l’abbandonò, andando a gettarsi ai piedi di Maria, oramai riconosciuta da tutto il regno. Northumberland con i suoi figli fu portato alla Torre; Jean Gray, regina per nove giorni, dopo una prigionia di due anni, perdeva la vita sul patibolo, più come protestante, che per l’usurpazione del titolo di regina. 

 

 

 

 

*) Il personaggio era stato ben reso da Stewart Granger  nella sua smagliante e istrionica interpretazione, che aveva saputo sfoggiare in tanti films storici; in questo film (La vergine regina del 1952) era in coppia con  Jean Simmons nella parte di Elisabetta. 

 

 

 

ELISABETTA

 COINVOLTA

NEL COMPLOTTO

DEI PROTESTSANTI

CONTRO  

LA REGINA MARIA

 

 

 

E

ra usanza dei re d’Inghilterra, appena eletti, andare a trascorrere dieci giorni  alla Torre decorsi i quali, con una grande cavalcata si recavano a Westminster per essere incoronati.  Maria aveva seguito questa usanza ed era stata incoronata a Westminster (1553) dall’arcivescovo Cramer, in una chiesa piena di cattolici; Elisabetta in questa occasione non aveva avuto il trattamento riservato a una sorella della regina, perché alla cerimonia non era stata invitata.  

Appena incoronata, il primo atto compiuto da Maria, era stata la richiesta al  Parlamento del riconoscimento del matrimonio tra la madre Caterina d’Aragona e il padre Enrico VIII, con la dichiarazione della nullità delle nozze di Enrico con Anna Bolena.

Sebbene a molti parlamentari fosse dispiaciuto vedere Elisabetta non più principessa ed esclusa dalla eredità della corona e ancor più considerata figlia bastarda, l’atto fu approvato all’unanimità e applauudito, per dimostrare, ciascuno dei votanti, il proprio zelo verso la regina.

La sorte di Elisabetta ora nella Corte e nel regno era di essere stata privata delle prerogative riservate ai figli dei re e avere il trattamento riservata ai figli naturali; le vennero infatti, tolti privilegi  e pensioni che le aveva concessi il padre Enrico e  mantenuti anche dal fratello Edoardo VI.

Maria inoltre dispose che andasse ad abitare a venti miglia da Londra e non le fu concesso neanche di vedere la regina, nei confronti della quale aveva mostrato affetto e zelo per la sua primogenitura; Elisabetta però, le scrisse una umilissima lettera, con richieste che non furono concesse, all’infuori del mantenimento della servitù ordinaria di dodici persone.

Maria nutriva nei suoi confronti una certa avversione, per tre ordini di motivi:  per prima, l’offesa che Anna Bolena aveva arrecato alla madre, sposando Enrico (che non poteva essere addossata ad Elisabetta); il secondo era di carattere religioso, in quanto Maria fanaticamente era cattolica mentre Elisabetta pur essendo indifferente, propendeva per i riformati; il terzo motivo aveva un nome: Edoardo di Courtenay, conte di Devonshire, ultimo discendente dei Plantageniti, di bel garbo e ben fatto nella persona, amato da Maria già prima di diventare regina.  

Maria lo aveva trovato alla Torre (messo agli arresti da Edoardo), quando era andata a passarvi i dieci giorni di rito e lo aveva liberato concedendogli molti onori,  e ritenendo che sarebbe stato anche un ottimo monarca, aveva pensato di sposarlo. Con Courtenay correvano anche rapporti di parentela ed era più giovane di lei di sei anni, non solo, ma  Courtenay non ricambiava le sue attenzioni e nutriva nei suoi confronti una certa ripugnanza, subito notata dalla acutezza di cui Maria era dotata. Sfortuna volle che Courtenay fosse innamorato proprio di chi in questo caso non avesse dovuto: di Elisabetta, sebbene le loro inclinazioni religiose fossero diverse; tra di loro vi era già una corrispondenza epistolare, che Maria divenuta gelosa, faceva intercettare.  

Nel frattempo a Maria giungevano le proposte matrimoniali degli spagnoli per Filippo, che si trovava nelle Fiandre e ai primi di gennaio (1554) giungeva l’ambasceria di Carlo V, con il conte fiammingo Lamoral di Egmont (1522-1568), che proponeva il matrimonio del figlio Filippo, al quale gli inglesi protestanti si mostrarono contrari; ma il consiglio reale, con maggioranza cattolica, dava il voto favorevole.

Era sottoscritto un trattato che regolava tutti gli aspetti successori del matrimonio, ma i riformati inglesi non appena seppero della sottoscrizione, sostenendo che non intendevano sottomettersi alla tirannia spagnola e al giogo della crudele Inquisizione, deliberarono di ricorrere alle armi.

I principali cospiratori erano il duca di Suffolk, i cavalieri Wiatt e Peter Carrew, ma questa cospirazione sorta prima del matrimonio di Maria, non aveva avuto nessun seguito e finiva con l’arresto di tanti innocenti semplicemente sospettati.

Dal momento della pronunzia della validità del matrimonio della madre, Maria cercava tutte le occasioni per mortificare Elisabetta e per la gelosia del suo rapporto con Courtenay, ora la sospettava di aver partecipato al complotto  e aveva disposto che Elisabetta andasse ad abitare a Ashriedge, distante tre giornate da Londra; mentre Courtenay che esercitava delle cariche, era stato trattenuto a Corte.

In seguito all’interrogatorio di Wiatt e Rochester, costoro avevano accusato Elisabetta e Courtenaycol disegno di scacciare Maria dal trono e mettervi Elisabetta con la quale erano stati presi accordi di matrimonio”; ma Rochester quando era stato condotto al patibolo, tra le lacrime, aveva dichiarato che i due erano innocenti; ma non si tenne conto di queste dichiarazioni e fu dato ordine di andare a prelevare Elisabetta e portarla a Withehall per essere giudicata; Courtenay che nonostante i suoi pregi non era un eroe, aveva confessato e si era rimesso alla clemenza della regina.

Elisabetta che conosceva le debolezze di Courtenay, nelle sue risposte, persiteva nelle negative, dicendo “di non ritenere il conte  Courtenay capace  di avere avuto il pensiero di far minima cosa contro gli interessi dell regina e molto meno di confessare una colpa che non aveva commesso”.

Lo stesso giorno (1554) la regina aveva dato ordine di condurla alla Torre, fino a quando non si fosse scoperta la verità; Elisabetta levava le sue proteste contro le guardie dicendo che “non riteneva possibile che la regina, clemente com’era, avesse dato un simile ordine che certamente era di qualche suo ministro; né i giudici avevano prove sulle calunniose accuse contro di lei” ; ma fu portata ugualmente alla Torre trattata con rigore dal luogotenente, ossia sotto-governatore, cav. Gage. senza possibilità di poter uscire dalle stanze che le erano state assegnate.

Elisabetta subiva questo trattamento per diciassette giorni fino a quando con l’intervento di milord Chandois, Governatore della Torre, le fu assegnato l’appartamento dei re (quando andavano a passare i dieci giorni alla Torre) e di passeggiare per i corridoi e terrazze di piombo, ma accompagnata dal Contestabile o dal Luogotenente, a condizione che le finestre e le stanze dove passasse,  fossero chiuse; poi, sempre con l’intervento di Chandois, ottenne di passeggiare nel giardino a condizione che le finestre che vi affacciavano rimanessero chiuse. Un giorno le si era avvicinato un bambino di quattro anni per consegnarle un mazzetto di fiori, ma glielo tolsero subito di mano e maltrattarono il bambino, pensando che potesse nascondere qualche biglietto e il padre fu scacciato dalla Torre.

Alla regina e al suo Cancelliere Gardiner (*) non piacevano le premure del governatore Chandois nei confronti di Elisabetta, che aveva la libertà di avere corrispondenza epistolare con Courtenay e fu presa la decisione di toglierla dalla sorveglianza di Chandois e affidarla a Henry Bedingfield, governatore di Woodstock, dove fu mandata Elisabetta.

Il brutale trattamento ricevuto da Elisabetta, le fece pensare che il governatore avesse ricevuto l’ordine di farle perdere, tra le afflizioni, la vita.

Nel frattempo Maria aveva sposato Filippo II (v. cit. P. I), considerato  inumano, barbaro e crudele, che non risparmiava il sangue neanche delle sole ombre degli eretici; ma mentre Maria regnava facendo strage dei protestanti, Filippo, in Inghilterra, si mostrava clemente e compassionevole, fingendo di chiedere grazie, non per propria inclinazione, ma per guadagnarsi la benevolenza degli inglesi; essi si erano infatti persuasi della sua benignità e clemenza, ritenendolo incline a graziare, piuttosto che a punire con rigore.

Filippo, nel momento in cui si accorse che la voce della sua clemenza si era sparsa tra gli inglesi, pensò di comportarsi in modo da guadagnarsi la loro simpatia; venuto a conoscenza che la gravidanza di Maria fosse una finzione e resosi conto che Elisabetta era amata dal popolo, chiese alla regina di concedere la libertà alla sorella ed Elisabetta fu trasferita da Woodsock a Hamptoncourt, rimanendo però ancora sotto custodia, in quanto Maria voleva che prima di concederle la libertà,  la sorella confessasse la sua colpa.

 Gli aveva mandato Gardiner, il quale le riferiva che il re e la regina le concedevano la grazia ma lei doveva confessare la sua colpa per evitare la formalità di un processo. Elisabetta gli rispose senza mezzi termini che lei non aveva nessuna colpa da confessare. “Quello che posso assicurarvi, in tutta coscenza è che ho sempre avuto in orrore il pensiero di offendere chicchesia e tanto più la persona e gli interessi della regina, mia signora e sorella ... e conoscendomi innocente preferirei perdere piuttosto la vita, che macchiare la mia innocenza con una confessione indegna del mio onore e della mia innocenza”. Gardiner così mortificato fece il rapporto del colloquio alla regina che decise di mandarle il cardinal Polo (v. P. I), con l’idea di farla diventare una buonna cristiana. Il colloquio tra il cardinale ed Elisabetta era stato lungo, di alto livello ed interessante: intenzione di Polo era di convertirla.

Elisabetta se ne usciva con destrezza e il cardinale era giunto alla convinzione che la testa della principessa fosse nutrita di religione politica, nel senso che per lei la religione era quella del governo dello Stato e dal lungo colloquio avuto col cardinale, non era venuto fuori altro che la sua indifferenza per la religione, senza troppo zelo per quella che professava e senza alcun odio nei confronti della cattolica, che intimamente aborriva.

E a questo modo, alla morte di Maria, Elisabetta si guadagnerà le grazie di ambedue i seguaci, cattolici e protestanti, ciascuno dei quali riteneva che lei fosse dalla propria parte, lasciando agli uni e agli altri il libero godimento dei propri sentimenti e delle proprie funzioni e proteggendo sia gli uni che gli altri, come poi avvenne. Il cardinale tornato dalla regina si era mantenuto sulle generali e Maria decise di convocarla a Corte con il re che sarebbe stato nascosto dietro le tende.

Giunse Elisabetta alla udienza fissata, gettandosi in ginocchio ai piedi di Maria, grondando di lacrime e dichiarandosi innocente; la regina era stata istruita da Gardiner di non mostrare tenerezza per le lacrime e per le giustificazioni e senza farla alzare, la sollecitò a non voler nascondere la colpa per salvare il suo onore, perché non voleva essere tacciata di aver perseguitato una innocente, avendo già deciso di perdonarla.

Elisabetta rispose di aver sofferto con pazienza le afflizioni imposte e per alleviare i suoi patimenti avrebbe accettato quella sola che Sua Maestà avesse voluto imporle, perché potesse avere una migliore opinione di lei ... ed altro aggiunse; Maria si intenerì e facendola alzare la abbracciò, dicendole: giusta o colpevole vi perdono; e poiché stava avanzando la notte le fece dare delle stanze a Withehall. Filippo usciva soddisfatto da dietro le tende (era un suo debole: gli piaceva spiare!); la mattina forse per conciliarla, le fu mandato Gardiner che le disse di essere reintegrata nelle pensioni concesse da Edoardo, ma senza alcuna prerogativa di sangue o di eredità sulla Corona, con facoltà di poter restare a Withehall o andare in una delle case regia di campagna; al momento Elisabetta scrisse subito due lettere, a Maria e a Filippo, che si era interessato di lei, e fu poi da loro ricevuta in udienza.   

Maria l’accolse con affetto .... ma durante la visita si era accorta che Filippo, colpito dalla freschezza di Elisabetta, ne fosse rimasto affascinato e le aveva rivolto grandi premure, che le avevano suscitato i morsi della gelosia e l’avevano portata a pensare di allontanarla dalla Corte.

La situazione era stata aggravata dalla circostanza che tra la popolazione si era sparsa la voce che Elisabetta fosse a Londra e si radunava presso la Corte, e in altri posti erano stati accesi fuochi;  e quando Elisabetta per tre volte era uscita a cavallo, non si erano sentite che acclamazioni, che non erano state fatte alla regina.  

Ora si aggiungeva quest’altro motivo di gelosia a quelli già indicati; mentre Gardiner suggeriva alla regina che “la libertà concessa a Elisabetta, minacciava sinistri presagi al regno”. Era stata la stessa Elisabetta a rendersi conto che non fosse il caso di rimanere a Withehall e quando chiese alla regina di licenziarsi, Maria le aveva risposto freddamente “trovo che fate bene ed Elisabetta si ritirava a Hartfield.

 

 

 

 

*) Stefano Gardiner vescovo di Winchester, messo agli arresti da Edoardo, era stato liberato dalla prigionia da Maria che lo aveva creato Cancelliere del regno; era stato il maggior persecutore di Elisabetta per la quale, prima aveva suggerito l’assassinio, poi la sua prigionia.

La mancanza di uno  spirito critico, che dovrebbe accompagnare  chi si dedica alla politica e sia chi si dedica alla religione, porta spesso alle esasperazioni del fanatismo; e si giunge agli assassinii, come avviene tutt’ora nell’Islam o avveniva da parte dei cristiani quando combattevano contro quelli che consideravano i loro avversari, con le sadiche torture o facendone strage. Mentre ora si è passati agli opposti eccessi della conservazione della vita a tutti i costi, accanendosi sull’embrione, per quelli che si oppongono agli aborti o non lasciando libertà di scelta per coloro che vogliono terminare la loro vita, per porre fine alle sofferenze; e per puro fanatismo vi è chi si oppone, alla approvazione della legge sulla eutanasia, sebbene suggerita  da un organo istituzionale come la Corte Costituzionale.

 

  

 

ELISABETTA

 A HARTFIELD

DEDITA AGLI STUDI

 LE PRIME

PROPOSTE

DI MATRIMONIO

 

 

E

lisabetta, a venidue anni, ad Hatfield, si era dedicata agli studi leggendo Machiavelli la cui fama si era sparsa per tutta l’Europa e Tacito, e tutti i testi di politica che le capitavano; rilesse la storia di Roma e i Conmnentari di Giulio Cesare, la vita dei pontefici, quella degli imperatori, oltre alla storia d’Inghilterra e di Scozia e tutte i successi delle guerre e delle paci, non tralasciando le recenti storie di Carlo V, di suo padre Enrico VIII e di Francesco I di Francia.

Nei libri che leggeva faceva annotazioni ai margini e aveva un libretto in cui usava scrivere osservazioni su ciò che leggeva, passeggiando nei giardini della villa; e non trascurava di occuparsi di religione, in particolare di Lutero e Calvino.

Manteneva uno scambio di lettere con Courtenay che, con suo dispiacere, moriva (1556) dopo breve malattia; poiché era noto il loro reciproco amore, si riteneva che avessero intenzione di sposarsi e si era sospettato un avvelenamento da parte di Filippo, che aveva delle mire su di  lei, nel caso fosse morta la moglie: ma erano solo  ipotesi.

Filippo intanto diveniva re a seguito della rinuncia di Carlo V (v. in Art.), succedendo in tutti i regni lasciatigli dal padre (1557); l’anno seguente si trovava a Bruxelles dove incontrava il duca Filiberto Emanuele di Savoia, che, scacciato dai francesi dalla Savoia, era divenuto celebre capitano.

Filippo, per festeggiare il suo avvenimento, si stava recando dalla moglie a Londra e il duca, al quale in precedenza aveva proposto il matrimonio con Elisabetta, si era offerto di accompagnarlo, sperando in un suo matrimonio con Elisabetta.  Questa volta però  Filippo, pensando alla possibilità di sposare lui Elisabetta, gli aveva suggerito che fosse meglio rimanesse al governo delle Fiandre, avrebbe pensato lui a concludergli le sue nozze con la regina.        

Nello stesso tempo, si era sparsa la voce, che le nozze tra Elisabetta e il duca stessero per concludersi, messa in giro dallo stesso Filippo, ma solo per evitare che si facessero avanti altri pretendenti ... che si erano ugualmente presentati.   

Si trattava di Erik di Svezia (1533-1577), figlio di Gustavo I, il quale aveva mandato un’ambasceria a Londra, col pretesto di congratularsi per la vittoria conseguita da Filippo sui francesi (Saint Quentin).

L’ambasciatore, dopo essere stato a Corte, senza affrontare l’argomento di Elisabetta, si era recato (1558) ad Hatfield da Elisabetta; mentre conversavano, quando l’ambasciatore aveva affrontato l’argomento delle nozze, Elisabetta aveva mostrato di rimanere attonita: l’ambasciatore, informato sulle possibili nozze con il duca di Savoia, in maniera maldestra, l’aveva invitata a considerare la differenza del matrimonio tra il duca e quello con il re; lasciando ancor più meravigliata Elisabetta che, ringraziando l’ambasciatore per la visita, gli rispondeva che per le nozze non aveva da dare alcuna risposta, per non essere stata fatta la domanda alla regina, sua signora e sorella.   

L’ambasciatore messo così in imbarazzo si giustificava dicendo che era venuto in forma privata per saggiare le sue intenzioni; replicava Elisabetta che con la regina si trovava impegnata in rapporti di sangue, di ubbidienza e di stima, da non poter accettare alcuna proposta di matrimonio senza che la regina, sua sorella e signora, le facesse recapitare un biglietto con cui avesse dato il suo assenso. Con questa risposta licenziava l’ambasciatore, contento e soddisfatto del bel garbo e delle belle maniere di Elisabetta, ritenendola degna di nozze per qualsiasi monarca.

La regina, informata, mentre era rimasta scandalizzata del comportamento dell’ambasciatore e edificata per il comportamento della sorella, come aveva riferito nel  Consiglio privato, da esserne intenerita. Le mandava quindi, per mezzo del cav. Pope, una sua lettera, con la quale si congratulava per la condotta avuta con l’ambasciatore.

Quest’ultimo, tornando dalla regina le riferiva che il suo re insisteva nella richiesta di matrimonio per Elisabetta; tralasciando altre numerose richieste, Maria, pur di vedere Elisabetta sposata con un principe cattolico – senza impegnarsi –  dava una risposta evasiva, dicendo che prima di dare una risposta, avrebbe dovuto sentire la sorella, dalla quale mandava nuovamente il cav. Pope per avere questo suo consenso.  

Elisabetta rispondeva di aver avuto già altre proposte di matrimonio, ma lei aveva intenzione di rimanere vergine e in questo stato si trovava bene e intendeva continuare a vivere; e avendo preso questa decisione, non aveva intenzione di sposarsi, con qualsiasi monarca del mondo.

Riferita la risposta alla regina, Maria aveva pensato a tre motivi che l’avessero determinata; il primo, che non avesse proprio nessuna voglia di sposarsi; il secondo, che fosse vero il suo giuramento di rimanere fedele a Courtenay; il terzo era il peggiore: nel senso che aveva pensato che fosse nei progetti di Elisabetta che, morta lei, avrebbe sposato Filippo che sarebbe stato il più gran monarca del mondo. Ma su questa idea si dovette ricredere, considerando che i cattolici la volessero in ogni caso assassinare e ritenne che la sua decisione fosse proprio quella di non volersi sposare.

Maria soffriva di  idropisia e le era giunta la notizia della perdita di Calais e che le truppe inglesi non erano riuscite a resistere agli assalti francesi, e in questa circostanza moriva anche di dolore, in quanto, era solita ripetere, se aprite il mio cuore troverete scritto Calais; era morta senza vedere Filippo, assente da due anni e mezzo e la causa  della sua partenza era stata la sua sterilità, che Filippo aveva giustificato dicendo di dover prepararsi ad affrontare la guerra.

                                                                                            

 

 

RIFIUTO DEL PAPA

DI RICONOSCERE

ELISABETTA REGINA

PROPOSTA

DI MATRIMONIO

DI  FILIPPO II

 

 

 

L

a elezione  con cui Elisabetta era proclamata regina era stata immediata sia da parte della Camera Alta sia dalla Camera Bassa e all’unisono si era sentito “dalla bocca di tutti: Viva la regina Elisabetta e  Dio le dia lunga vita e felice governo”.    

I più gran signori del regno, tra i quali il duca di Norfolk e il conte di Arundel si erano recati a prenderla ad Hatfield per portarla a Londra, dove, dopo aver alloggiato nel palazzo di  Arundel, fu portata alla Torre per trascorrervi i dieci giorni di rito;  qui incontrava Bedingfield, che le aveva fatto soffrire una dura prigionia e stendendogli la mano per farla baciare, sorridendo, aveva detto agli astanti:  Ecco il mio carceriere”.    

Durante la sua permanenza alla Torre, Elisabetta aveva mandato gli ambasciatori ad annunziare la morte di Maria e la sua successione; a Roma l’ambasciatore Karn riferiva al papa Paolo IV Carafa, il passaggio della corona a Elisabetta; ma il papa, duro nei sentimenti, disse che “Elisabetta era una bastarda e non aveva alcun diritto alla corona e non poteva revocare la bolla di Clemente VII e Paolo III (che avevano dichiarato la legittimità del matrimonio di Caterina), suoi predecessori. Che era stata troppo audace e impertinente per aver assunto il trono senza il suo consenso ...  che se si fosse rimessa al giudizio della Santa sede, avrebbe potuto avere la sua benedizione ... che non consentiva che si facesse breccia alla dignità del Vicario di Cristo, al quale apparteneva la decisione sui diritti delle Corone

Queste parole del papa avevano fatto sorgere in Elisabetta la necessità di propendere per la religione protestante anziché per la cattolica.

Elisabetta fin da quando era entrata nella Torre, aveva scritto (novembre 1558) una lunga lettera al re Filippo, annunciandogli la morte di Maria e, mostrandogli particolare affetto, gli aveva riferito  tutte le traversie subite e il pericolo che aveva corso con i suoi nemici, che la volevano morta.

Filippo quando aveva riferito al duca di Savoia di volersi recare a Londra, in effetti non era più partito, ma aveva dato incarico al duca di Ferìa, di recarsi al suo posto, come ambasciatore, dalla regina Maria. Ferìa era arrivato a Londra quando Maria era morta e le disposizioni che gli erano state date da Filippo per Maria, erano state immediatamente cambiate.

Filippo ricevendo la lettera di Elisabetta, aveva frainteso il suo tenore, ritenendola ambiziosa al punto che non avrebbe rinunciato a un matrimonio con un grande monarca;  sicuro che la sua richiesta di sposarlo sarebbe stata accolta, senza attendere la risposta, aveva mandato a richiedere la dispensa alla Corte di Roma e aveva dato all’ambasciatore l’incarico di presentare a Elisabetta la richiesta di matrimonio.

L’ambasciatore, ottenuta l’udienza, riferiva che “la sua ’accoglienza era stata così calorosa, da fargli credere che  il matrimonio sarebbe stato certo; i tratti del suo viso lasciavano credere al gradimento del suo cuore, e il duca aveva scritto al re che sperava di vederlo presto sposo della regina a Londra.” Ma le risposte della regina “erano sempre spaziose e vaste che appena potevano vedersi con l’occhio e meno comprendersi con la mente, poiché non solo non faceva conoscere un minimo segno di negativa, ma mentre dava a credere che fosse per dare il suo consenso, senza dire mai  nulla di positivo o di affermativo, restringeva il suo piacere e le sue risposte a parlare dei meriti del re Filippo e del suo valore in politica, della sua maturità, prudenza e gran fortuna  dei suoi popoli di avere un tal re, del gran vantaggio dell’Europa, di avere una monarca così grande, tutto clemenza e moderazione”.

Insomma, l’ambasciatore aveva scritto nuovamente al re “Elisabetta era come un’anguilla, quanto più si stringeva, tanto più scappava dalla mano”. Alla fine, il Ferìa, pressato ancora dal re, gli rispose “Sire, questa regina è simile a una commediante di teatro, che parla molto e non risolve nulla”.

L’ambasciatore Ferìa aveva partecipato alla cerimonia della incoronazione e trovandosi con il duca d’Alba gli aveva detto che il regno di Elisabetta sarebbe stato piuttosto il regno di una commediante, che di una regina. Il duca d’Alba gli rispose che era convinto che Elisabetta sarebbe stata la più fine politica, perché i commedianti, aggiunse, guadagnano con l’adulazione, accarezzando il cuore di tutti, senza impegnare la propria persona; che dicono una cosa, pensandone un’altra; promettono tutto e non mantengono niente; convincono con arte e ingannano con grazia. Ecco il vero ritratto della regina Elisabetta, replicò il duca Ferìa.

La incoronazione ebbe una incredibile partecipazione di folla, con una cavalcata di quattrocento cavalli e cento cocchi; la regina era su un piccolo carro d  trionfo tirato da due soli cavalli, circondato da quaranta paggi vestiti di scarlatto con fasce bianche ricamate; seguivano quaranta dame in cocchi scoperti ciascuno con due dame: l’abito della regina era il primo dei suoi tremiladuecento abiti sfarzosi, che lascerà alla sua morte; e lo sfarzo era esteso alla corte e richiesto agli ambasciatori, che quando si presentavano con un seguito ordinario e livree mediocri, soleva dire: Signor ambasciatore, ci fa un onor secco; e la Corte era divenuta, come si diceva: Vago teatro di commedie.

La cerimonia fu officiata dal vescovo cattolico Overio Ogilthorpe, vescovo di Carlile che sostituiva il cardinal Polo, da poco deceduto; erano presenti anche due vescovi protestanti. Elisabetta giurò di mantenere la fede cattolica, confermando i privilegi della Chiesa; in proposito erano sorte delle polemiche tra i cattolici, contenti della predisposizione manifestata da Elisabetta e i protestanti i quali ritenevano che la fede cattolica fosse la vera fede protestante; Elisabetta liberava quindi tutti i prigionieri protestanti messi nelle carceri da Maria e anche quelli per debiti, dei quali furono pagati i debiti.

Seguirono tre giorni di udienze degli ambasciatori, signori e deputati delle città  in cui Elisabetta dava prova delle sue doti di spirito, di zelo, di prudenza e finezza; nessuno si ritirava dal colloquio senza aver ammirato la sua abilità, le sue parole accoglienti, la forza delle sue proposte, la vivacità e buon senso delle risposte.                         

     

 

 

PRIMI SUCCESSI POLITICI

ELISABETTA

 RISOLVE I PROBLEMI

CON FRANCIA  E SCOZIA

 

 

I

n Francia il delfino Francesco figlio di Enrico II e di Caterina de’ Medici, aveva appena sposato Maria Stuarda, regina di Scozia, alla quale, come erede di Giacomo V i francesi ritenevano dovesse appartenere la corona d’Inghilterra. Quando seppero che l’ambasciatore Ferìa stava per concludere il matrimonio tra Filippo ed Elisabetta e che a Roma si stavano facendo pressioni per la dispensa, il cardinale di Lorena (zio di Maria), potente (con il fratello duca) a Corte, suggerì che per tutta la Francia e la Scozia, Maria fosse proclamata regina d’Inghilterra e d’Irlanda, aggiungendo che Elisabetta era usurpatrice e bastarda; inoltre il cardinale premeva per una pace tra Francia e Spagna perché Filippo sposasse una francese e sostenesse le pretese di Maria sul trono inglese.

A Londra intanto Elisabetta era incoronata, ma questa di Maria Stuarda non era la sua principale preoccupazione, che invece era quella di dover mantenere in Inghilterra la religione cattolica, che lei si era proposta di eliminare.

In ogni caso, per risolvere  la questione con la Francia, a Londra vi era un gentiluomo fiorentino, Guido Cavalcanti. stimato da Elisabetta, atto agli affari, al quale la regina affidava l’incarico  di risolverla, e fu brillantemente risolta con il trattato di Cateau Cambresis, (1559) e successivi accordi tra Inghilterra e Scozia.

A questo trattato avevano partecipato le delegazioni di Francia, Spagna e Inghilterra e con esso si concordava: la restituzione da parte della Francia al duca di Savoia e alla Spagna di quattrocento città e terre; e, poiché nei trattati di pace si concordavano sempre dei matrimoni, si era pattuito il matrimonio di Filippo con Isabella, figlia di Enrico II e, per il duca di Savoia, il matrimonio con la sorella di Enrico, Margherita  (queste nozze erano state infsuste a causa della morte di Enrico durante un torneo). Si era parlato anche del matrimonio di Elisabetta con l’arciduca Ferdinando, ma le cose, come tutti i progetti di matrimonio di Elisabetta, erano andate per le lunghe, senza alcun risultato.

Il  Delfino, per la morte del padre diveniva con Maria re e regina di Francia di Scozia, e inoltre essi si appropriavano del titolo e delle armi d’Inghilterra e d’Irlanda, mentre Francesco (II) mandava in Scozia  truppe francesi per difenderla da eventuali attacchi inglesi.

Per Calais  si decideva che la città rimanesse alla Francia per otto anni, trascorsi i quali sarebbe stata restituita agl’inglesi dietro un esborso di un milione e mezzo di lire-tornesi e durante questi otto anni, tra Francia, Scozia e Inghilterra, si sarebbe mantenuta la pace; e, nel caso francesi o scozzesi avessero fatto guerra all’Inghilterra, Calais sarebbe tornata agli inglesi.

Con ulteriori accordi (1560) Francesco II con Maria, si impegnavano a rinunciare all’uso di tutte le insegne e iscrizioni che li indicavano come re e regina d’Inghilterra e d’Irlanda (ma Maria in cuor suo non rinuncerà, fino alla morte, ad aspirare al regno inglese) e, relativamente al Governo della Scozia, si stabiliva che questo dovesse essere assunto da un Consiglio di dodici cittadini scozzesi, eletti nel numero di ventiquattro dal Parlamento e tra costoro Francesco e Maria ne avrebbero scelto sette e gli altri cinque sarebbero stati scelti dal Parlamento; oltre a una amnistia generale per coloro che erano nelle carceri; inoltre tutte le truppe francesi dovevano abbandonare la Scozia, con divieto per il re e la regina di inviare altre truppe, senza espressa autorizzazione del Parlamento.

Quanto alla religione si stabiliva che ogni scozzese potesse vivere secondo i propri sentimenti religiosi, senza poter essere moleststo dal Consiglio.

Tutto ciò costituiva una vittoria per Elisabetta che, cacciando i francesi dalla Scozia, come era stato scritto, “si liberava dei serpenti che la mordevano nel petto e li passava a coloro che la vedevano regnare con tanta pace all’esterno e senza alcun disturbo all’interno”, nonostante avesse preso la risoluzione di togliere di mezzo il papato, con la decisione che le rendite e i censi ecclesiastici non dovessero essere più mandati a Roma ma dovessero essere versati alla monarchia mentre lei aveva preso il titolo di Governatrice della Chiesa.

Questa pace era vergognosa per i francesi che, come a Roma diceva una  pasquinata, mentre i francesi avevano dato a Elisabetta una “guanciatella, con la ritenzione di Calais, Elisabetta aveva dato un gran calcio ai francesi scacciandoli con vergogna dalla Scozia.

Nel mese di dicembre di questo stesso anno Francesco II moriva a diciassette anni appena compiuti, lasciando Maria vedova di diciotto anni.

Elisabetta aveva messo la pace tra protestanti e cattolici, distribuendo le cariche nel proprio Consiglio tra gli uni e gli altri, tra i quali i principali  consiglieri erano Thomas Howard, duca di Norfolk e il conte Henry Fitzalan di Arundel, ambedue cattolici.

Per i rapporti altamente ipocriti tra Marie ed Elisabetta, quando questa aveva saputo che Maria dalla Francia se ne stava tornando in Scozia, aveva predisposto un tentativo per farla prigioniera durante la sua navigazione verso la Scozia, mandando delle navi, ma il tentativo non era riuscito; non appena Maria giungeva in Scozia, le mandava una superba ambasciata con il conte Arundel, per congratularsi del suo arrivo in Scozia e per la sua stretta amicizia con lei e con la Scozia. Maria che aveva prestato fede a queate espressioni di affetto di Elisabetta e ricambiava con una sua ambasciata, mandandole un meraviglioso diamante a forma di cuore, come prova della sua fede nei suoi confronti “che sarà sempre più ferma e più chiara del diamante stesso”. Ma nel suo stemma continuava a mantenere le insegne dell’Inghilterra!

 

 

SFARZO E SPESE

DI ELISABETTA

LE SUE RISPOSTE ALLE

PROPOSTE DI  MATRIMONIO

VISITA

A CAMBRIDGE E OXFORD

 

 

 

A

bbiamo visto come sin dalla incoronazione Elisabetta amasse lo sfarzo; per le spese sostenute per la Corte e per sovvenzionare gli ugonotti francesi, dovette chiedere il finanziamento al Parlamento, dove aveva il pieno favore della Camera Bassa. Questa, che nella regina vedeva un amore straordinario verso il popolo, chiudendo gli occhi per le spese della Corte, aveva disposto (1565) il versamento di cinquecentomila sterline; nello stesso tempo, volendola vedere sposata, aveva mandato una delegazione di trenta parlamentari per pregarla di voler risolvere il problema del suo matrimonio; la preccupazione del Parlamento era che se fosse venuta a mancare, non vi erano eredi e la pregavano quindi di voler  nominare un successore.

Lo stesso Parlamento proponeva Edoardo d’Hastingues, conte di Huntingdon o, in caso di  mancanza d’inclinazione verso quest’ultimo, Thomas Howard, duca di Norfolk, ambedue di gran nascita, gran garbo e beltà.

La regina, dopo aver ringraziato il Parlamento per il suo zelo e affetto nei suoi confronti, dichiarava “che non aveva un cuore così vile da rendersi suddita e obbligarsi a ubbidire a uno che era obbligato a ubbidirla. Che non poteva risolversi a far compagno del suo letto uno che doveva servirla a tavola; che voleva ben contentare i suoi popoli, ma non in ciò che andasse a suo pregiudizio”.

Ritornati i deputati con questa risposta, in Parlamento si cominciò a sospettare che la regina avesse in animo un principe straniero capace di svegliare non meno torbidi e guerre, di quello che aveva fatto Filippo, le cui calamità erano ancora fresche. Ma ancora maggior sospetti, ebbero i ministri stranieri, quando vennero a conoscenza di questi particolari, ritenendo che Elisabetta propendeva per un matrimonio con un principe straniero, che non solo avrebbe portato gelosia, ma avrebbe portato turbamento alla pace di tutti i vicini.

Avvertita la regina di tali sospetti, Elisabetta trovò il modo di rassicurarli facendo questa dichiarazione: “Potevano gli uni e gli altri mettere lo spirito in pace e togliersi qualsiasi apprensione, perché se fosse capitato di non sposare uno del suo Paese, ma straniero, sarebbe stata sua cura scegliere un principe povero e di condizioni così mediocri e così poco vantaggiose, che nessuno avrebbe avuto di che temere, risoluta a non spogliarsi mai della sua autorità; insomma, decidendo di passare a nozze, non voleva che di lei si dicesse, se non che avesse preso un marito per il letto, non già un compagno per il tromo”.

E così tutti i tentativi di vederla sposata, riuscivano infruttuosi vedendosi scorrere i giorni più fioriti della sua età, senza sentirsi altro che un gran piacere di scherzare con gli uni e con gli altri, come si vede scritto (era stato detto) nelle commedie di teatro, che spesso hanno due-tre promessi mariti in trattativa, ma nessuno nel letto e nel cuore: che lo stile di Elisabetta, era di dare buone parole a tutti ma in concreto sfuggire a ogni minima soluzione.

Quando il re di Svezia, al tempo della regina Maria, aveva mandato ambasciatori per il figlio Erik, che poi  era divenuto re e lei era tenuta in semi-prigionia, Elisabetta aveva risposto che “non vi era al mondo principe verso il quale testimoniava maggior obbligo e maggior affetto per essere stato il primo a domandarla, nonostante si trovasse in prigione e in condizioni calamitose, né poteva dimenticare di aver giurato di non sposare alcun principe se non l’avesse prima conosciuto e frequentato per lungo tempo, ciò che le impediva di sposare un principe di tal fatta, che non aveva mai visto né conosciuto”.

E buona parte delle sue risposte erano di questa natura, che erano intese a scoraggiare qualunque straniero, mentre se si trattava di soggetti del suo Paese rispondeva con la scusa che non voleva diventare  compagna di uno che fosse tenuto a ubbidirla, né con lei accomunare un suddito al trono.

Tra gli aspiranti vi erano stati l’arciduca Ferdinando d’Austria e poi, più insistentemente, l’arciduca Carlo, figlio dell’imperatore Ferdinando I; ma ciò comportava che lei dovesse farsi cattolica, perché un esponente della Casa d’Austria non poteva sposare un’eretica. Alla fine era stata lei (1566) a rompere gli indugi dicendo “di non poter gustare le proposte nozze che le venivano dall’arciduca, per aver giurato di non sposare mai alcuno senza vederlo prima negli esercizi sacri in pubblico, della religione che lei professava”.

Per distrarre il suo spirito dai problemi del regno, Elisabetta  decise di recarsi a visitare (1566) per due mesi, un mese per ciascuna, le università di Cambrige e Oxford, famose in tutta l’Europa. La mattina dava udienza a tanti letterati ricevendoli familiarmente e con loro si tratteneva nelle varie materie letterarie e di scienze; al dopopranzo andava ad ascoltare le dispute pubbliche e la maggior parte della notte assisteva alle rappresentazioni teatrali apprestate dagli scolari che molte persone scrupolose criticarono in quanto “la regina si era ritirata dalle superstizioni di Roma, per compiacersi delle rappresentazioni di commedie e bagatelle teatrali”.

Mentre Elisabetta era a Cambridge, dalla Scozia era giunto l’ambasciatore Jacob Melvin che annunciava il parto della regina Maria di un maschio, al quale era stato dato il nome di Carlo Giacomo, con la richiesta di fargli da madrina; Elisabetta aveva gradito la richiesta e avcva mandato  il cav. Henry Killigrew di Edimburgo per congratularsi del parto e nell’accettare l’invito, pregava la regina di accogliere al suo posto un’ambasciata, per non esporsi al gesto di qualche ribelle e, tornando a Londra, inviava Francis Russel, conte di Bedford come capo della solenne ambasciata che la sostituiva per il battesimo.

Con il suo ritorno a Londra, prima nel Consiglio reale e poi pubblicamente, non si parlava che del suo matrimonio e dell’obbligo di nominare un successore e si facevano i nomi dei pretendenti che erano Guglielmo Herbert conte di Pembroc, il conte di Leicester e Guglielmo Somerset conte di Worchester, mentre William Cecil che era il suo personale segretario, sosteneva le ragioni della regina, dicendo che un re avrebbe oscurato tutta la sua autorità; anche il suo medico personale, uomo di fama, forse su suggerimento di Cecil, sosteneva che la sua “complessione” era contraria al matrimonio, che avrebbe potuto metterla anche in pericolo di vita; per questo la regina amava sé stessa, godeva del fasto, dei piaceri e della sontuosità e aborriva il matrimonio per non cadere in qualche lunga e mortale infermità.

In questo periodo era capitato a Londra Thomas Howard, duca di Northfolk, il più considerevole cavaliere del regno in nascita e dignità, parente di terzo grado della regina, il quale recatosi con gli altri signori da Elisabetta affrontava due argomenti: primo, le faceva presente che il più prossimo a succederle, tanto rispetto al padre, quanto rispetto alla madre era Giacomo di Scozia figlio appena nato di Maria Stuarda e, secondo, le chiedeva il permesso di sposarla.

A Elisabetta questa richiesta non era andata a genio, in quanto non voleva che reggente del pupillo fosse un cattolico e tantomeno marito di una regina cattolica, e inoltre non poteva permettere che un uomo che avesse tanta autorità in Inghilterra, se ne andasse in Scozia e rispose alla sua maniera “che matrimoni di quella natura bisognava ben maturarli e che già erano ventiquattro anni che maturava le sue nozze, senza poterle risolvere”.

In incognito era giunto a Londra (1567) il conte di Egmont, per proporre a Elisabetta il matrimonio del figlio di Filippo, don Carlos, infante di Spagna che sarà reso celebre dalle tragedie che saranno scritte su di lui. 

Egmont, nel colloquio avuto con Elisabetta aveva fatto una descrizione fisica di don Carlos, diversa dalla realtà, essendogli state attribuite belle fattezze di corpo e gentilezza di spirito, con l’aggiunta che don Carlos non avesse alcuna inclinazione per gli spagnoli e ottenendo dal padre i Paesi Bassi, questi avrebbero potuto ingrandire la monarchia inglese.

Il principe inoltre, aggiungeva Egmont, aborriva la religione romana e il suo animo era incline alla riforma della Chiesa; Elisabetta ne fu tanto stimolata che, senza tener conto della differenza di età (nove anni) che la separavano da don Carlos, non escluse le speranze della sua buona disposizione; ma, more solito, la faccenda non ebbe più alcun seguito (del personaggio ne abbiamo fatto separatente una descrizione v. Schede, Don Carlos infante di Spagna).

Dalla Francia, per Elisabetta,  giungeva un’altra richiesta di matrimonio (1574); quella di Francesco Ercole, duca di Alançon (1555-1584), giovanissimo figlio di Caterina de’ Medici (aveva ventiquattro anni, Elisabetta quarantacinque); la richiesta giungeva nel periodo in cui Elisabetta aveva come favoriti Leicester e Harton.

Il giovane duca si era recato a Londra in incognito; non non era bello e aveva il viso deturpato dal vaiolo, come d’altronde lo aveva Elisabetta (avuto nel 1562), che nascondeva le cicatrici con le creme; aveva il naso che sembrava diviso in due e inoltre era basso, ma vivace e pieno di spirito, almeno così si era mostrato, con i suoi amici che lo accompagnavano, durante la sua permanenza a Londra. Ambedue si erano piaciuti e Francesco Ercole, aveva mostrato di non essere molto legato alla religione, sì che Elisabetta aveva preso in considerazione l’idea di sposarlo, nonostante la differenza di età, e nonostante il Consiglio reale si fosse espresso negativamente; passati dieci giorni tra feste, balli e corteggiamenti, il duca era stato spinto a ripartire, e le luci sulle illusioni si spegnevano.     

Nel frattempo moriva Carlo IX (1575) e Caterina faceva chiamare segretamente il figlio Enrico, che stava regnando in Polonia, per metterlo sul trono di Francia. Preso il nome di Enrico III, era da sposare, e Caterina, cambiando il precedente orientamento del matrimonio del duca d’Alançon, proponeva a Elisabetta, il nuovo re come sposo, ritenendo che se non aveva voluto sposare un principe, avrebbe certamente sposato un re (non aspettandosi la risposta che avrebbe dato Elisabetta!).

Inviava  quindi una solenne ambasciata, affidata a Enrico di Borbone, duca di Montpensier, che si era recato da Elisabetta con un seguito di trenta persone; accolto dalla regina non come ambasciatore ma come un fratello; la risposta di Elisabetta era stata: “Signor duca, non è mio pensiero maritarmi, ma occorrendo, amerei prendere un principe per farlo re, che un re per farmi principessa”; il duca partì e provvide a far sposare Enrico con la principessa Ludovica di Lorena.

Dai Paesi Bassi era stato richiamato il duca d’Alba, che aveva governato col pugno di ferro, e in sua sostituzione, era stato mandato don Luis de Zuñiga y Requesens, Gran Commendatore di Castiglia, di carattere ben diverso dal suo predecessore; era stato mandato (1573) nei Paesi Bassi dalla Corte spagnola con l’intenzione di fargli sposare la regina d’Inghilterra. Il  governatore era infatti “un signore attempato, nemico dell’ambizione, buon cattolico e fedele al re Filippo ed Elisabetta era nell’età (trentatré anni) in cui non avrebbe potuto avere un marito più maturo e il matrimonio avrebbe potuto portar la pace nelle Fiandre”.

Requesens aveva comunicato a Elisabetta le sue intenzioni e buoni rapporti e in risposta aveva avuto altrettanta disponibilità; ma in segreto Elisabetta sovvenzionava i protestanti fiamminghi e li stimolava alla rivolta contro il loro re. La risposta data da Elisabetta, era alla sua maniera, con quell’entusiasmo che faceva intravedere la concretezza della realizzazione; ma proprio  quando gli era giunta la risposta, il commendatore colpito da una febbre maligna, passava a miglior  vita (1576); qualcuno gli aveva sentito dire:- “Questa falsa Gezabel (dalla forte personalità e nel regno sostituiva il marito) d’Inghilterra mi ha ingannato; e  i suoi inganni mi hanno fatto servir male il mio Signore”,  

In sua sostituzione (1576) era stato  mandato l’allievo di Requesens, don Giovanni d’Austria, nominato Governatore dei Paesi Bassi dal re Filippo.

Dopo la battaglia di Lepanto (v. in Specchio dell’Epoca, Lepanto ecc.) era in auge l’ammiraglio don Giovanni, considerato il capitano del secolo, per la vittoria contro i turchi (1571); ben fatto e dai modi francesi più che spagnoli,  era stato proposto a Elisabetta (nel 1572); con allarme della Corte spagnola che temeva che Elisabetta avesse potuto convertirlo al protestantesimo e potessero sorgere problemi con i Paesi Bassi, che certamente sarebbero passati dalla parte di don Giovanni.

La proposta non ebbe seguito, ma si riteneva che ambedue avessero potuto mantenere una corrispondenza segreta e nel caso di un loro matrimonio, si temeva che le Fiandre fossero cadute nella dipendenza dell’Inghilterra.    

Un’ulteriore proposta (1576) non ebbe alcun seguito ed era stata oggetto di pasquinate a Roma e in particolare di satire sulla circostanza che ambedue erano considerati bastardi. Don Giovanni, forse sognando di diventare signore d’Inghilterra con il governo dei Paesi Bassi, nel periodo in cui vi  governava, a Bruxelles fu colpito da una febbre maligna, accompagnata da delirio (con trasporto di cervello), e moriva nel giro di tre giorni (1578), con sospetto di avvelenamento da parte degli spagnoli, che cadevano in particolare su Filippo, ei sospetti caddero anche su Elisabetta che non aveva alcun motivo di farlo.

 

  

 

I PIRATI PONGONO

LE BASI DELLE

 COLONIE

 E DELL’IMPERO

 

 

 

E

lisabetta superando il padre e il nonno era stata una regina d’eccezione per le alte qualità politiche e per l’intelligenza con cui seppe servire il paese; ma la sua grandezza era dovuta al merito dei personaggi di prim’ordine di cui si era circondata, senza distinzione nella religione da essi professata: i due Cecil (William e Robert, poi conte di Salisbury, padre e figlio), con tutti gli altri, erano preparati, ciascuno nel proprio campo, come Burghley e Walsingham uomini di Stato, marinai come Drake, Hawkins, Forbiser, Raleigh e Davis, militari come Norris, Vere, Howard, Montijoy, Essex, Philippe Sidney. 

Il dispotismo di Elisabetta poteva esser pari a quello praticato dagli zar in  Russia e dai sultani in Turchia, ma aveva saputo far accettare agli inglesi il suo assolutismo e malgrado le sue forme dure di governo, aveva mostrato di amare il suo popolo e ne era stata fraucamcnte ricambiata ed apprezzata; perchè la sua politica aveva saputo rapidamente trasformare la Gran Bretagna da un paese di allevatori di bestiame e di mercanti di lane, in un paese di industriali (i tessitori fiamminghi, emigranti per sfuggire alle persecuzioni spagnole, avevano trovato rifugio tra gli Inglesi), di armatori e di navigatori e  aveva dato la spinta decisiva per costituire un dominio coloniale nell’America del Nord.

I corsari dell’Inghilterra facevano al commercio spagnolo una guerra spietata; Hawkins nel 1567 era stato sorpreso e battuto nella baia di San Juan de Ulloa, dal viceré del Messico; era scampata una sola delle sue navi comandata da Francis Drake, ardito avventuriero che aveva giurato di recuperare le sue perdite prendendo le Indie occidentali, dove la Spagna escludeva dal commercio tutte le altre nazioni.  

Nel corso di tre spedizioni aveva saccheggiato la città spagnola di Nombre de Dios e nel 1570 aveva fatto un tale bottino, che nel 1577 potè partire dall'Inghilterra con cinque vascelli e centosessanta uomini.

La stessa regina aveva investito mille corone in questa impresa di filibustieri; Drake aveva doppiato per primo Capo Horn e andava a saccheggiare tutte le città del Cile e del Perù catturando un numero considerevole di navi; ma una squadra spagnola l'attendeva al ritorno e per evitarla Drake ebbe l'audacia di attraversare tutto l'oceano Pacifico e giungere in Inghilterra attraverso il Capo di Buona Speranza (1577-1581).

Aveva impiegato tre anni ed era stato il primo a fare il giro del mondo; portava alla regina ottocentomila lire-sterline, di cui una piccola parte era stata data all'ambasciatore spagnolo, che reclamva la totalità.

Elisabetta si era recata sulla nave di Drake nominandolo cavaliere e Drake nel suo stemma aveva riportato un vascello con la divisa: “Sic parvis magna” che ricordava le sue grandi imprese. John Hawkins, parente di Drake, ammiraglio, tesoriere di Elisabetta, si era reso celebre per lo sviluppo dato alla tratta dei negri che in quell'epoca non era considerato un disonore come si era ritenuto successivamente. Sei anni dopo (1586), Thomas Cavendish (1560-1592), rinnovava la circumnavigazione che era preparata rispetto a quella di Drake che era stata tentata, con la stessa fortuna.

Quando l’esploratore Walter Raleigh (1552-1618) scopriva le coste dell’America settentrionale (1584), dava a quel territorio il nome di  la Virginia in onore di Elisabetta e portava in Europa la patata che costituiva la più preziosa di tutte le scoperte.

Presso il Royal Excange di Londra la spedizione di un mercante in India (1599) aveva suggerito l’idea della costituzione della “Compagnia deIle Indie”, con privilegio concesso da Elisabetta (1600), con cui nell’India erano gettate le basi del futuro Impero britannico.

Contemporaneamente, il tono di vita degli Inglesi si elevava sensibilmente, l’obbligo del lavoro era generalizzato in quanto il vagabondaggio era perseguito provvedendosi ai disoccupati con la tassa dei p0veri. 

Per superare le restrizioni sul commercio dei prodotti delle Indie, opposte dagli spagnoli (v. cit. Art. Carlo V  ecc. P. II), e per appropriarsi dell’oro e dell’argento trasportato dagli spagnoli, come abbiamo  visto, Elisabetta aveva scatenato i suoi pirati; nel 1591  aveva affidato a Thomas Howard, figlio del duca di Norfolk, nominato ammiraglio, quattro delle migliori navi che avesse l’Inghilterra, la prima delle quali, si chiamava “Vendetta” e l’altra “Diffidenza”, con sei altri vascelli chiamati “pinazze”, facendo vela verso il Nuovo Mondo e giunti alle isole Flores (Azzorre) dove si erano fermati per rifornirsi di acqua era stato notato che cinquanta navi spagnole stavano navigando verso di loro; Howard che si era reso conto di non poterle affrontare, aveva preso il vento a vele spiegate, ma il viceammiraglio che si trovava a terra, si era trovato uno smisurato galeone che aveva il nome di “San Filippo” e sbarrava la strada alla sua nave e gli toglieva il vento e comiciò ad assalirlo a cannonate; il comandante del galeone non aveva voluto che interevenissero le altre navi spagnole, volendo prendere da solo la nave inglese; ma a causa della ostinazione della nave inglese, si avvicinarono altri quattro vascelli  che in due ore scaricarono ottocento cannonate, senza però prenderla  e giunta la notte la tennero assediata. La mattina seguente, essendogli rimasto un solo barile di polvere, il viceammiraglio che aveva molteplici ferite, essendogli bastato essersi difeso per quindici ore di combattimento, ritenendo più opportuno il gesto della disperazione, piuttosto che darsi prigioniero agli spagnoli, comandò al cannoniere di mandare a picco la nave. Il cannoniere si mostrava d’accordo in quanto riteneva che gli spagnoli, considerandoli eretici, li avrebbero condannati al fuoco o alla forca e per loro era meglio colare a picco; ma il comandante della nave mettendosi in ginocchio disse che a questo modo sarebbero morti come demoni e che era meglio la resa e avendoli convinti, passò per primo sul galeone spagnolo per trattare la resa. Il comandante. temendo che durante le trattative il viceammiraglio e il cannoniere potessero ugualmente far saltare la nave, ordinò che fossero tenuti in custodia. e presi gli accordi, tutti gli inglesi furono trasferiti sul galeone.

L’ammiraglio spagnolo era don Alonzo de Bazan, fratello del marchese di Santa Croce il quale nonostante gli accordi, aveva intenzione di lasciar libero il comandante e impiccare il viceammiraglio, ma erano ambedue feriti e morirono lo stesso giorno e in sostituzione del viceammiraglio fu impiccato il cannoniere; tutte le altre navi inglesi proseguirono nella loro rotta e non furono molestate.

La perdita di questa nave del valore di centomila scudi, fu successivamente recuperata dagli inglesi, quando ventisei galeoni colmi di straordinaria ricchezza di oro, argento e altre mercanzie dovevano essere scortati dalle navi spagnole, ma furono sorprese da una tempesta che ne affondava quattordici e le altre vagavano nell’Oceano e cinque, le più ricche della flotta, la cui merce trasportata era stata stimata del valore di un milione e mezzo di scudi, erano cadute nelle mani degli inglesi e dell’ammiraglio Howard.

Sempre nello stesso anno (1591) dalle parti della Barberia una nave inglese al comando di Thmas Whit con quarantacinque marinai era in attesa per caricare delle mercanzie e il capitano aveva pensato di recarsi dove sapeva passassero navi che andavano e tornavano dalle Indie e nel giro di due giorni incontrò delle piccole navi spagnole ricche di merce che erano state scortate da dieci galere che, ritenendole fuori pericolo, le avevano lasciate sole e per mancanza di vento lo stavano aspettando; essendo due, pensarono di poter prendere la nave inglese e la inseguirono; ma erano cariche di merce e avevano difficoltà a manovrare, la nave inglese che aveva cinquantasette uomini, riuscì a prenderle ambedue che avevano ottanta uomini ciascuna e un carico di millequattrocentonove casse d’argento vivo; cento botti di vino di Spagna e inoltre casse di breviari, messali e bolle pontificie che erano mandate ai frati e preti delle Indie.

Leti che riportava il fatto, si meravigliava della circostanza che una nave con cinquantasette uomini, ne avesse prese due con ottanta uomini ciascuna; sta di fatto, egli concludeva che la nave era arrivata con le due navi predate.

 

 

 

IL COMPLOTTO

DI BABINGTON

CONTRO ELISABETTA

IL PROCESSO

E LA CONDANNA

DI MARIA STUARDA

 

 

 

M

aria Stuarda dalla sua segregazione continuava a seguire i suoi progetti e complottare per la rivoluzione cattolica che, con la collaborazione della Spagna, prevedeva l’invasione (*) dell’Inghilterra; ritenendosi ancora titolare dei diritti sul regno di Scozia, Maria era irritata con suo  figlio Giacomo VI, protestante, il quale aveva costituito una lega con la regina Elisabetta (1586).

Maria, aveva quindi deciso che se suo figlio, prima della sua morte, non si fosse convertito alla religione cattolica, avrebbe ceduto per testamento i suoi diritti di successione e lo stato e gli affari del Paese, a Filippo II.

A Filippo chiedeva di prenderla sotto la sua protezione, aggiungendo che lo faceva per la restaurazione nella Scozia, della fede cattolica, di cui egli era un paladino; aveva quindi comunicato le sue decisioni all’ambasciatore di Spagna, don Bernardino Mendoza.

Don Bernardino, che era al corrente di tutto ciò che si tramava in Inghilterra e Scozia, da tempo era informato del progetto di assassinare Elisabetta e aveva comunicato a Filippo che vi erano quattro importanti personaggi che avevano accesso a Corte e avevano giurato di farlo, col veleno o col pugnale; e glielo avrebbero comunicato al momento opportuno, per essere soccorsi in caso di necessità.

Capo di questa cospirazione era Antony Babington, gentiluomo di Dethick, nella contea di Derby; di buona nascita, con una considerevole fortuna, spirito vivo, molto istruito e molto legato alla religione romana, con stretti legami con la più brillante gioventù londinese.

Per mezzo dell’arcivescovo di Glasgow, egli si era legato alla causa della regina di Scozia, divenendo suo devoto partigiano e cavalleresco servitore e per due anni Maria, quando era sotto la sorveglianza del conte di Shrewsbury, che gliela consentiva (la corrispondenza raggiungeva i cattolici di Francia, tra i quali gli immancabili fratelli, duca e cardinale di Lorena), si era servito di lui come intermediario della sua corrispondenza.  

I cospiratori che ritenevano che l’assassinio di Elisabetta dovesse avvenire dopo l’invasione, si erano ricreduti in quanto si erano resi conto e avevano deciso che essa dovesse avvenire prima dell’invasione; ciò che rese necessario coinvolgere nel complotto altre cinque persone tra i loro amici; incaricato dell’assassinio era il capitano John Savage.  

Babington frequentava Francis Walsingham, ministro e segretario di Stato di Elisabetta e, per fugare ogni sospetto, gli si era audacemente presentato offrendogli i suoi servigi; ma Walsingham ugualmente insospettito, aveva dato ai suoi uomini l’ordine di pedinarlo.

Maria, dal castello di Chartley dove si trovava, riprendendo il rapporto con Babington, gli inviava una lettera, con cui si rivolgeva a lui come al “suo grande amico”. Babington le rispondeva con un lungo dispaccio cifrato (6 luglio), rivolgendosi a lei come la sua “carissima sovrana” e le riferiva che si stava occupando della sua liberazione, conformemente al desiderio dei principi cristiani suoi alleati; egli si impegnava a servirla fino alla morte, con aggiunta, nella lettera,  di ulteriori particolari riguardanti la sua liberazione.

Maria a sua volta gli rispondeva, soffermandosi su particolari della sua liberazione dalla sua prigione di Chartley e ancora altri particolari (Marie Stuart, Mignet, Paris 1852): Walsingham che aveva un ottimo servizio di spionaggio, era informato dal cattolico Gilbert Gifford, a conoscenza dei sostenitori di Maria partecipanti alla cospirazione, che erano trentanove, riferendogli i loro nomi; tutto era stato riferito a Elisabetta che spaventata dal progetto dell’attentato contro la sua persona e della invasione del regno, volle che si procedesse immediatamente agli arresti.    

Walsingham faceva arrestare il prete John Ballard, Babington e Savage e trattò Maria come loro complice; lei, ignara del loro arresto, era a caccia quando le fu annunciato l’arresto di Babington.  

Maria fu trasferita al castello di Tixall dove, per diversi giorni fu tenuta in una piccola stanza, mentre dal  castello di Chartlay erano state prese tutte le sue carte e portate a Elisabetta. Riportata al castello di Chartlay, aveva trovato che era stato frugato dppertutto e indignata e piangendo disse con il suo solito orgoglio: “Due cose Elisabetta non potrà mai togliermi, il sangue reale che fa battere il mio cuore per la religione dei miei padri”.

Il processo ebbe inizio solo contro Babington, Savage e Ballard e i loro quattro complici Barnewell, Tilney, Abington e Tichbourne, condannati (20 Settembre 1586) come cospiratori alla pena prevista nei casi di alto tradimento, che consisteva nello sventramento da vivi, in presenza del popolo.

Burghlay e Walsingham avevano ritenuto fare, separatamente da quello ai ccospiratori, il processo alla regina; Maria fu quindi trasferita al castello di Fotheringay, dove fu insediata l’Alta Corte che l’avrebbe giudicata.

Il processo si svolse fondamentalmente sulla base della corrispondenza intercorsa tra Maria e Babington e da questo riconosciuta, e sulla testimonianza dei segretari della regina, Nau e Curle. Ma Maria durante il processo aveva opposto che si trattava di copie e non dei documenti originali: inoltre aveva inutilmente protestato per aver diritto a un avvocato che potesse difenderla oppure credere alla sua parola di regina. Non le fu riconosciuto né l’una né l’altra. Maria inoltre aveva rifiutato di riconoscere la giurisdizione alla quale si intendeva sottometterla a giudizio, ritenendo impossibile condannare al patibolo una regina, in esecuzione di una sentenza di soggetti incompetenti, di un’altra regina.

Ma il processo proseguì ugualmente; nella sala, tra tutti i giudici seduti in base alla dignità di ciascuno, vi era anche il posto riservato per la regina, rimasto vuoto per tutta la durata del processo;  questo era più alto del posto riservato a Maria che fieramente protestò dicendo: “Io sono regina, sposata a un re di Francia e il mio posto dovrebbe essere là” e osservando tutti i lord e consiglieri seduti, aggiunse “Ecco, vi è un gran numero di consiglieri eppure  non ve n’è uno solo per me”.

Il processo iniziato il 14 Ottobre, ebbe termine il 25 successivo, giorno in cui i giudici si riunirono a Westminster per deliberare;  avevano voluto ascoltare di nuovo Nau e Curle, e mentre a Fotheringay avevano sentito l’accusata senza testimoni, a Westminster ascoltarorono i testimoni senza l’accusata e il processo che non aveva seguito le giuste forme procedurali, ebbe termine con la sentenza di condanna decisa lo stesso giorno.

La sentenza alla quale si volle dare una parvenza di ufficialità, fu sottoposta alla conferma delle due Camere del Parlamento, riunite qualche giorno dopo, che non solo sanzionarono la condanna della regina di Scozia, che, secondo quanto era stato scritto, “la vendicativa ma prudente Elisabetta non intendeva che far perire con un atto di giustizia e di volontà nazionale”.

Per questa voglia nazionale di vendetta  e di fanatismo, si ringraziava la Provvidenza (alla quale si attribuiscono tutte le atrocità commesse sugli avversari), per aver salvato la loro regina e la Nazione dalla cospirazione e dalla tirannia romana; e tutti chiesero la punizione per la regina di Scozia per il suo detestabile complotto e per tutto ciò che aveva tramato in precedenza.

Non solo, ma il Parlamento si riunì nuovamente (18 Novembre) per confermare che la loro regina avrebbe corso il pericolo di vita fintanto che fosse vissuta la regina di Scozia.

Abbiamo letto tante esecuzioni avvenute nella storia, ma la più straziante per le manifestazioni di fede e d’innocenza e per come si era svolta la stessa esecuzione, è stata questa di Maria Stuarda che, morta, come aveva scritto Jebb, da martire; e noi riteniamo, avrebbe dovuto essere anche santificata.

Nei diciannove anni di prigionia (1568-87) era stata al centro, consapevole o non, dei vari complotti orditi  per assassinare Elisabetta. Per l’ultimo, ordito da Anthony Babington si trovarono prove (vi era chi sosteneva, falsificate), del suo diretto coinvolgimento che la condussero al patibolo, sebbene lei avesse giurato di esserne estranea.

Era salita sul patibolo  con la stessa disinvoltura e la stessa dignità con cui sarebbe salita sul trono; quando era sul patibolo, il carnefice mettendosi in ginocchio le chiese perdono; lei rispose che lo accordava a tutto il mondo. Affrontò la morte con eroico coraggio e ammirevole dolcezza; la sua cameriera Jeanne Kennedy, aveva preso dalla borsa un fazzoletto ricamato d’oro e le aveva bendato gli occhi; lei si era messa in ginocchio rimanendo dritta, pensando che l’esecuzione sarebbe stata, come in Francia, con la spada, ma le fu spiegato che doveva poggiare la testa sul ceppo, cosa che fece continuando a pregare  ad alta voce.

La morte fu orribile perché il carnefice, certamente emozionato, non aveva sferrato con decisione al primo colpo, e l’ascia si era fermata sotto la testa, ferendola, senza che lei avesse fatto alcun movimento; il secondo colpo aveva preso solo una gran parte del collo; la testa fu abbattuta al terzo intervento e il carnefice, dopo averle rimesso la parrucca che le  era caduta, la mostrò dicendo “Dio salvi la regina d’Inghilterra, la regina Elisabetta”. Nel momento in cui presero il corpo per portarlo via e imbalsamarlo, emerse un “catellino” (erano i cagnolini delle regine e dei cardinali), nascosto tra le vesti della sua padrona, che non voleva uscire e dovettero strapparlo con forza.

È stato l'episodio di questa tragica morte che i numerosi poeti e drammaturghi, subendo il fascino della sua complessa personalità, hanno prevalentemente trattato in ogni secolo  (**).

 

 

 

*) L’invasione,  o meglio, il tentativo di invasione fu organizzato dopo la esecuzione di Maria (1588) per la conquista dell’Inghilterra da parte di Filippo II, con la costituzione e “La fine dell’Invincibile Armada” che pubblichiamo in Schede S. 

**) Maria Stuarda non era stata una grande regina come Elisabetta, ma la sua tragica vita e la sua morte accettata stoicamente, avevano suscitato una grande impressione in Europa e aveva avuto tutti i crismi per ispirare poeti e drammaturghi, dalla sua epoca fino a Charles Swinburne (1837-1909) autore di una trilogia: “Chastelard, Bothwell e Maria Stuarda”. Si veda il prezioso Dizionario di Opere Bompiani.

 

 

 

L’ULTIMA FASTOSA

 AMBASCIATA

DI CHARLES BIRON

 RICEVUTA DA ELISABETTA

E LA SUA ULTIMA SFURIATA 

  

 

 

E

nrico IV di Francia aveva sposato (1600) Maria de’ Medici, figlia del granduca Francesco e come ambasciatore aveva mandato alla regina Elisabetta un’ambasciata con il presidente della Camera di Parigi, Achille d’Arlay, per annunciare il suo matrimonio; a causa di ritardi, quando l’ambasciatore era arrivato a Londra aveva partecipato anche la nascita del delfino (futuro Luigi XIII), e presso la Corte inglese si era ironizzato sulla circostanza che quando Enrico si era sposato, la moglie era già gravida.

Elisabetta aveva saputo che Enrico si  era recato a Calais  e aveva mandato un’ambasciata con il conte di Edmond, per congratularsi ufficialmente con il re per il suo matrimonio, ma il motivo principale era quello di incontrarlo e lei si era recata nelle vicinanze di Dover, presso una villa reale a Vignes, e gli faceva chiedere dall’ambasciatore se, trovandosi ambedue a metà strada, si potessero incontrare; non si può escludere, supponeva il Leti, che Elisabetta avesse in animo di incontrarlo per riprendergli Calais: ma, alla sua richiesta Enrico che era molto sospettoso, aveva risposto negativamente. 

L’ambasciata era stata allestita da Edmond  con tanto sfarzo che a Parigi non si era mai vista una ambasciata con maggior magnificenza; oltre ai cento scudi al giorno che gli venivano versati per coprire le spese, il conte che era ricchissimo, aveva aggiunto anche del suo.                               

Gli sposi a loro volta, avevano ricambiato con un’ambasciata non meno magnifica; dell’ambasceria era stato incaricato Charles Biron, duca de Gantaud, maresciallo e ammiraglio di Francia, che aveva allestito la più superba ambasciata che si fosse mai vista, recandosi a Vignes, dove si trovava la regina.

Oltre all’importo di spesa giornaliera che gli era stato assegnato di centomila franchi, di suo, Biron spese ventimila scudi, pari alla sua rendita di un anno. Il suo seguito era formato da ventiquattro staffieri, dodici paggi, centocinquanta domestici, sei abati, quattro cappellani, centosettanta gentiluomini, ciascuno dei quali aveva due servitori con livrea.

La regina che in questi casi non voleva essere da meno, inviò a Dover per ricevere l’ambasciata, uno dei suoi principali ufficiali con centocinquanta gentiluomini, riccamente vestiti, con oltre quattrocento servitori in livrea; con trecento carrozze e quaranta carri per il bagaglio, per riceverlo e assisterlo dall’arrivo fino alla partenza, come era stato fatto con Edmond.

Tra i gentiluomini si trovava uno dei maggiori nobili che era il conte d’Auvergne, che aveva chiesto e ottenuto dal re, di seguire l’ambasciata in incognito; la regina aveva dato udienza a Biron con i suoi gentiluomini, seduta sul trono sotto un ricchissimo baldacchino, mentre lei indossava un abito arricchito di ricami d’oro e di gemme per il quale avevano lavorato cento persone per tre settimane, con una corona che era una delle più ricche poste sul suo capo. Elisabetta aveva dato ordine al vice-maresciallo, che sostituiva il maresciallo Essex che era stato decapitato. dicendogli: “fate tutto bene perché questo è l’ultimo ambasciatore che ricevo solennemente in udienza”.

Durante la conversazione tra la regina e l’ambasciatore, mentre la regina si mostrava dispiaciuta del rifiuto del re per l’abboccamento richiesto, Biron, nelle risposte, dava prova di prontezza e destrezza per giustificare il diniego; Elisabetta poi era venuta a sapere della presenza di un gentiluomo in incognito, e scesa dal trono (*) si era avvicinata al Biron chiedendogli di mostrargli il gentiluomo in incognito; il conte che si trovava vicino, fattosi avanti le disse: “Ecco serenissima maestà colui che desidera far l’onore di conoscere e che dopo il re suo signore non vi è persona al mondo per chi abbia maggior rispetto e venerazione”. Dopodiché la regina tornata sul trono chiese a Biron di  presentarle tutti i nobili che lo accompagnavano, e, cominciando dal conte d’Auvergne, le furono tutti presentati (proprio tutti quelli che l’accompagnavano; Elisabetta, inconsciamente, stava dando l’addio al mondo!), e uno dopo l’altro, le baciarono la mano.

L’ambasciata non finì qui, perché l’ambasciatore fu invitato con il suo seguito,  a visitare Londra (a spese della regina) e tra le cose degne di essere mostrate, fu condotto al Ponte di Londra, dove erano affisse le teste tagliate dei malfattori, e gli venne mostrata la testa del conte di Essex.

Biron fingendo di non sapere chi fosse, chiese cosa avesse fatto e gli fu risposto: “Per aver cospirato contro la sacra persona della regina”; Biron replicò: “Ce ne vorrebbero di ponti per mettere le teste di tutti quelli che cospirano contro i principi”. L’ambasciatore dopo essere stato quattro giorni a Londra, tornò a Vignes per rientrare in Francia; la regina, prima della partenza,  offrì una cena a tutti i francesi e li allietò, suonando al cimbalo una canzone francese; il giorno seguente condusse tutta la comitiva a caccia, a cavallo.  

Non si era mai vista, scrive lo storico Leti, un’accoglienza verso l’ ambasciatore e tutti i francesi che l’accompagnavano, da lasciare attoniti i ministri stranieri e gli stessi inglesi e ciò nonostante, come abbiamo visto, dal re Enrico fosse stato opposto un rifiuto alla richiesta della regina, di un incontro.  

Prima di partire, Biron era stato ricevuto privatamente dalla regina per l’udienza di congedo e Elisabetta gli aveva parlato a lungo di Essex, delle inclinazioni che aveva nei suoi confronti e della sua perversa ingratitudine che lo aveva perduto e aprendo un cofanetto gli aveva mostrato il suo ritratto, dicendogli:- Ecco l’effige di quel perfido; se il re mio fratello (Enrico), si risolvesse a castigare a questo modo i traditori del suo regno, sarebbe molto ubbidito. Queste ultime parole avevano fatto sorgere negli ufficiali di Biron che lo accompagnavano, il sospetto che la regina non lo ritenesse troppo fedele al suo re. 

Biron, rientrato in Francia, aveva raccontato l’esito dell’ambasciata al re Enrico e pur descrivendogli i particolari del Ponte sul Tamigi, non gli aveva riferito della testa del conte di Essex, di cui il re era a conoscenza; per questo motivo, il giorno dopo lo fece chiamare e gli chiese di riferirgli esattamente tutto ciò che era stato detto nelle conversazioni avute con la regina, senza fare alcun cenno a ciò che egli era venuto a sapere. 

Questo comportamento del re, era dovuto al fatto che fin da quando aveva mandato Biron con l’ambasciata, sospettava della sua fedeltà e delle cattive disposizioni che aveva nei suoi confronti per voler provocare una rivolta di popolo e appropriarsi del potere; e infatti si scoprì che da quattro anni egli tramava contro la corona e, processato, fu condannato al patibolo, perdendo la testa come l’aveva persa il conte di Essex.

Robert Devereux, conte di Essex, era stato una delle ultime fiamme di Elisabetta che per avere la metà dei suoi anni le aveva suscitato le maggiori tenerezze e sentimenti materni e lei gli aveva lasciato tanto potere che Essex  aveva avuto la tracotanza di avere intenzione di assumere le redini del governo; ma con Elisabetta, sempre vigile,  aveva fatto male i suoi calcoli, perché il suo complotto era stato scoperto e dopo essere stato processato era stato condannato al patibolo (1601).

Elisabetta, come emergeva dal ciò che aveva detto a Biron, sarebbe stata disposta anche a perdonarlo se Essex avesse trovato il modo di chiederlo; cosa che Essex aveva fatto, ma era intervenuto un evento fatale che aveva impedito che il messaggio pervenisse a Elisabetta.

In un momento di tenerezza, Elisabetta aveva dato a Essex un anello, dicendogli di conservarlo come pegno d’amore e ogni qualvolta fosse caduto in disgrazia, mandandole l’anello, l’avrebbe richiamata alla tenerezza e indotta a favorirlo. Essex quando era stata emessa la sentenza che lo condannava e doveva essere firmata dalla regina, aveva dato l’anello alla contessa di Nottingham per consegnarlo alla regina; la contessa ne aveva parlato al marito, nemico di Essex, che le aveva proibito di consegnare l’anello; Elisabetta non ricevendo la richiesta del favorito, aveva firmato  la sentenza di esecuzione.

Avvenne poi, che la contessa di Nottingham si era ammalata ed era moribonda ed Elisabetta era andata a farle visita e la contessa, presa da scrupolo, le aveva riferito dell’anello datole da Essex, che non le aveva consegnato, chiedendole perdono. Elisabetta, allibita, proruppe in un’ira furibonda, scuotendo la moribonda nel letto e gridando che solo Dio l’avrebbe perdonata, uscendo quindi, precipitosamente dalla camera.   

Da questo momento Elisabetta era stata presa da una cupa e insanabile tristezza e non voleva udire parole di consolazione e rifiutava anche di cibarsi; gemiti e sospiri palesavano un’interna afflizione; giacque su un tappeto, per dieci giorni e notti, appoggiata a cuscini che le portavano le fantesche; alla fine fu messa sul letto dove volle rimanere vestita; furono raccolte le sue ultime volontà e con voce fioca aveva detto a Cecil che voleva come successore un re e quando Cecil le chiese di essere più chiara, disse che nessuno aveva più diritto del re di Scozia; poco dopo le mancava la voce cadendo in un sonno letargico che durò alcune ore e poi tranquillamente spirava (24 Maggio 1603).

 

 

 

 

*) Elisabetta se le venivano le traveggole, non si preoccupava di scendere dal trono con la corona, calpestando l’etichetta; una volta infatti, infiammata da un diverbio con il conte di Essex, era scesa dal trono per dargli uno schiaffo; l'impetuosità del suo carattere si manifestava con tratti di violenza; non era raro che percuotesse le sue damigelle d'onore; aveva percosso una ragazza di nome Scudamore, spezzandole un dito, ma era stato detto che l’incidente era dovuto alla caduta di un candeliere; una volta, durante un diverbio, aveva fortemente pizzicato la guancia della moglie del conte di Huntingdon, il quale se ne era rimasto così dispiaciuto da scriverlo in una lettera (D.Hume).                                                                             

 

 

 

LA VITA LICENZIOSA DI

ELISABETTA DESCRITTA

DA MARIA STUARDA

E LA CRISI COLLERICA

AVUTA DOPO

LA SUA ESECUZIONE

 

 

 

A

nziché placare e conciliare i suoi nemici, Maria Stuarda ignorando la prudenza, non parlava che di appenderli o crocifiggerli, tanto da renderli ancor più acerrimi nemici; per sua natura e per carattere era  portata ad esasperare gli animi, piuttosto che rabbonirli.

Poco prima del complotto di Babington, Elisabetta aveva affidato la sua sorveglianza al conte di Shrewsbury  che le aveva reso la prigionia più stretta e crudele; il conte aveva una moglie gelosa, che riteneva che il marito fosse divenuto amante di Elisabetta e si sfogava con Maria, riferendole tutto ciò che si raccontava di lei nella Corte e fuori della Corte.

E Maria, per alleviare le sue pene, con eleganza, le aveva scritto una lettera in cui le rinfacciava  tutto ciò che le era stato riferito, ponendo una gioia estrema  nel raccontarlo e sottolineando tutto ciò che potesse irritare la regina; e pur chiamandola “buona sorella”, tornava anche sullo stesso argomento, per affondare ulteriormente il dito nella piaga e ferirla nel suo amor proprio, di donna e di regina.

Da questo documento emergeva, sotto un’apparente benevolenza, un’ardente e segreta vendetta di Maria che si attardava a raccontare a Elisabetta (durante i diciotto anni di prigione, non si erano mai incontrate e non si conoscevano), tutto il male che dicevano di lei, dei suoi incontri notturni, dei baci scambiati in prossimità delle porte, delle impudiche  sconcezze, della sua dissolutezza, note a tutto il regno; della ripugnanza per il matrimonio che derivava, precisava Maria, di voler rimanere libera per  l'amore e poter avere la libertà di poter cambiare a piacere i suoi amanti.

Per l'amicizia dalla quale era legata, le riferiva  che raccontavano, che neanche si accontentava di due o tre amanti e si dava a strani personaggi ai quali finiva per rivelare segreti di Stato,  ... e,  che  rincorreva Christopher Hatton, e  andava a trovarlo di notte.

Anche David Hume, aveva trattato l’argomento di questa lettera e aveva scritto che: Elisabetta aveva fatto promesse di matrimonio a un certo numero di aspiranti che sovente aveva ricevuto nel suo letto; che aveva avuto la stessa compiacenza con Simier (il simpatico agente di Francia che agiva per il  duca d’Alançon, ed era entrato nei suoi favori); che Christopher Hatton, che rientrava nel numero dei suoi amanti, si era disgustato di lei  a causa di tutte le sue tenerezze. Che la sua avarizia era spinta al massimo e non si lasciava prendere né dalla riconoscenza, né dalla beneficenza, ma non risparmiava alcunché per soddisfare i suoi capricci amorosi”.

Inoltre Maria, “nella licenzisità delle sue espressioni, si dilettava a riferire a Elisabetta  tutti questi particolari ... che le avevano riferito ... offrendo un quadro delle differenze morali che le dividevano (ma Maria dimenticava le bassezze in cui lei stessa era caduta nel periodo scozzese); non solo, ma riferendosi anche al fisico di Elisabetta ... con la vecchiaia che avanzava e della sua Corte che la metteva in ridicolo;  delle signore di camera che si prendevano beffe delle sue pretese e la burlavano alle sue spalle. Maria non ometteva nulla, né le collere, né l'avarizia della regina d'Inghilterra che era spilorcia per tutto, all'infuori dei suoi amanti... “i quali fuggono” e lei aveva rotto un dente a uno del suo seguito”.

E per non far mancare nulla a ciò di cui Maria era a conoscenza, riferiva anche di malattie incurabili che Elisabetta portava, che rimanevano segrete e che non le permettevano di prendere uno sposo  e che  esponendosi  al ridicolo di tutto il regno “credendo di avere un bel viso splendente come il sole", tanto essa era vecchia, aggrinzita .... giustificava questa sua sfrontatezza nel riferire cose per le quali aveva dovuto forzare la sua mano e il suo dolore, per “soddisfarla e obbedirla” (D. Hume, Histoire d’Angleterre, Paris, 1839).

La lettera in ogni caso, nella sua scrittura, era un pezzo letterario, dallo stile vivo e rapido da vera scrittrice, da considerare una delle migliori del suo secolo. Elisabetta, malgrado i suoi intrighi licenziosi, non era fatta come le altre donne e tutti quelli che avevano aspirato alla sua mano erano finiti per essere ben ingannati; sulla sua bellezza era inebriata dalle più stravaganti adulazioni dei suoi cortigiani, che non rifiutavano il  piacere di coprirla di elogi su questo argomento. E avevano l’abitudine di dirle che la sua bellezza li abbagliava come il sole, da non poterne sostenere lo splendore.

La regina di Scozia aveva anche saputo che Elisabetta avesse subornato sir Thomas Gerrard Rolston per  sedurla e ottenere i suoi favori, al fine di cogliere l’occasione di ricoprirla d’infamia (Philarète Chasles).

Dopo questa lettera era seguito il processo contro Maria col quale Elisaabetta non le aveva risparmiato alcuna pietà, e, come abbiamo visto, era finito con la sua esecuzione, sebbene vi fossero state molte richieste, principalmente di  monarchi, per la concessione della grazia, di cui Elisabetta non aveva tenuto alcun conto.   

Maria le aveva scritto anche una lettera patetica e nello stesso tempo terribile, per la responsabilità che attribuiva a lei sola, dicendole, tra l’altro: “Signora, rendo grazia a Dio, con tutto il mio cuore, che ha fermato il noioso pellegrinaggio della mia esistenza. Non chiedo che essa sia prolungata avendo già avuto molto tempo per conoscere le sue amarezze. Supplico solamente Vostra maestà, di non dovermi attendere alcun favore di qualche zelante ministro di primo rango d'Inghilterra, di poter ritenere voi sola, e non altri, (responsabile) dei benefici che seguiranno ... ”.

Prima e dopo questa esecuzione vi erano stati momenti durante i quali Elisabetta aveva mostrato prima, la sua indecisione o riottosità a firmare l’atto di esecuzione, lasciando Maria, in attesa e in ansia per due mesi e mezzo e, dopo a esecuzione avvenuta, l’escandescenza della crisi collerica da cui era stata colta, ma non subito; per quattro giorni aveva mantenuto il silenzio, al quinto giorno era stata presa da violenta collera e indignazione nei confronti del suo segretario William Davison – “dal quale pretendeva che l’atto che lei aveva firmato, non avesse dovuto consegnarlo al Cancelliere e che gli era stata data esecuzione a sua insaputa, ed era stato ferito il suo cuore e attentato alla sua autorità” (!).

Elisabetta faceva quindi arrestare Davison che fu portato alla Torre, cacciando dalla sua presenza il suo vecchio servitore Burghley, che aveva consegnato il documento a Robert  Beale ed era stato maltrattato a tal punto da dimettersi da tutti gli incarichi; la regina aveva coinvolto anche i suoi due favoriti, Leicester e Hatton, per aver partecipato alla deliberazione del Consiglio privato, che furono momentaneamente allontanati cadendo in disgrazia; l’unico a salvarsi da questa “grand scène” era stato Walsingham che si era  tenuto lontano dalla faccenda, il quale aveva lamentato di essere stato colpito da indisposizione!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MARIA STUARDA

LA VITA PARALLELA

CON ELISABETTA

  SEGNATA DAL SUO

TRAGICO DESTINO

  

 

A

ccanto alla figura di Elisabetta, vi è quella altrettanto incancellabile di Maria Stuarda; se Plutarco fosse vissuto al loro tempo, avrebbe scritto la loro vita parallela; noi, nel nostro piccolo, proviamo a darne qualche elemento; ambedue, in ogni caso, nel bene e nel male a distanza di secoli, si sono guadagnate il ricordo dell’umanità; ancora oggi sulle loro tombe non mancano fiori portati da ignoti ammiratori, a testimonianza della  loro immortalità.    

Il giorno del suo matrimonio Maria, in tutto il suo splendore, all'età di sedici anni,  alta, bella e fin dalla nascita regina di Scozia, avanzava accanto al delfino Francesco, nel suo sontuoso abito bianco dal lungo strascico, tenuto da due damigelle; portava una collana di pietre preziose di valore inestimabile  accompagnata da una magnifica corona d'oro guarnita di perle, diamanti e rubini con al centro un carbonchio (così denominato il rubino che superava i venti carati, dal valore di cinquecentomila scudi); nessun segno indicava i giorni tragici che l’avrebbero colpita dopo solo due anni.  

Figlia del re Giacomo V e di Maria Guisa di Lorena, per la morte del padre, che lasciava molti figli bastardi e lei, unica erede legittima, dopo cinque giorni dalla nascita Maria Stuarda era stata proclamata regina di Scozia, sotto la reggenza della madre. Giacomo V era moribondo e quando aveva saputo che era nata una femmina, pronunziava delle parole alquanto oscure in riferimento alla corona  "Per figlia è venuta e per figlia se ne andrà"; egli infatti, come tuttì i i monarchi,  si aspettava un maschio e una femmina sarebbe stata di cattivo augurio per la corona ... ma quelle parole erano state piuttosto di cattivo augurio per  Maria, che avrà tutta la vita segnata dalla sfortuna.

Il destino infatti, le aveva riservato otto anni di vita carica di avvenimenti fausti; nel resto sarebbero stati anni di vita, tragici, svoltasi a rincorrere un altro trono,   mentre non aveva saputo mantenere il suo di Scozia e si perdeva a desiderare il trono d’Inghilterra, che non riuscirà mai a raggiungere e la ridurrà, per diciannove anni, a una vita di prigionia e alla tragica fine sul patibolo. 

A sei anni era stata mandata presso la Corte di Francesco I (1494-1547, v. in Art, Carlo V ecc.), dove nella dimora di Saint Germaine, le veniva impartita una educazione all'italiana, con l'insegnamento del latino, dell'italiano, dell'arte di scriver versi, della musica, danza; dedicando due ore al giorno allo studio e alla lettura; tra i tredici e quattordici anni  in una sala del Louvre, in pubblico, aveva sostenuto una tesi in latino.

Sposando (1558) il delfino, Francesco di Valois (di quattordici anni), succeduto al padre, come Francesco II (1559), diveniva regina di Francia, ma solo per un anno, in quanto il giovane Francesco moriva l’anno seguente, lasciandola  vedova dopo due anni di matrimonio.  Alla morte di Francesco II, succedevano Enrico III (la cui successione non era prevista e per questo Caterina de’ Medici gli era stata data in moglie: v. in Art. Diana di Poitier ecc.), e la moglie Caterina diveniva regina (nomina ritenuta scandalosa per le origini della sua famiglia).

Caterina aveva detto di lei: La nostra reginetta scozzese non ha che da sorridere per far girare la testa ai francesi; ma i loro rapporti, nel tempo, erano peggiorati in quanto Caterina non poteva soffrire una nuora che la confinava nell'ombra e tra le due regine intercorrevano velenose conversazioni; Maria un giorno le infliggerà una ferita mortale, quando le dirà: “Avete un bel da fare Madame, voi  non siete e non sarete altro che la figlia di un  mercante”; questa graffiante offesa di Maria, era dovuta a quella mancanza di saggezza prudenza e umiltà, che le mancheranno anche negli anni della maturità.  

Caterina al momento non aveva avuto nessuna reazione, ma essa peserà sulla decisione di Maria quando dall’Inghilterra voleva tornare in Scozia e prendere le redini del regno diviso, tra cattolici che parteggiavano per i francesi e protestanti che parteggiavano per gl’inglesi. Ma le mire di Maria si rivolgevano al trono inglese dove regnava Elisabetta, ritenuta figlia illegittima di Enrico VIII, di cui lei, come  legittima pronipote, si riteneva erede del regno.

Maria era una donna fiera e assolutamente priva di quella prudenza non solo nel linguaggio, ma anche nel suo modo di agire, che solo in Francia le saranno perdonate per la sua bellezza, non nella selvaggia Scozia, dove porterà lo scompiglio tra i seguaci di ambedue le religioni.    

Maria  doveva perdersi con i suoi stessi talenti e con le sue manchevolezze, per le sue qualità e per i suoi difetti, dei quali il maggiore era la mancanza di freni che, nel  suo caso, diventavano vera e propria sfrontatezza, come quella di aver offeso le due uniche persone che non avrebbe dovuto offendere, la regina di Francia, come abbiamo visto e la regina d'Inghilterra (con la lettera che le scriverà, e vedremo più avanti, di cui se ne pentirà quando era troppo tardi), dalle quali riceverà il “redde rationem”; dalla prima, nessun aiuto per la sua liberazione durante la sua prigionia in Inghilterra; vi era stato un solo tentativo da parte di Enrico III e Caterina, di aver reclamato con freddezza, presso Elisabetta la sua liberazione: la ferita al cuore di Caterina era una ferita che non poteva rimarginare; con la seconda perderà la testa ... anche se andrà incontro alla morte con dignità e coraggio.

Ma il suo primo contatto con la Storia (appena sposata) tradì i difetti del suo carattere, istintivo, violento, assolutamente impotente a dominare le emozioni:  era stato proprio con Elisabetta (indirettamente), che segnava l'inizio di un rapporto velato di ipocrisia, ma che nel tempo si rivelerà tragico.

Come abbiamo visto, con il marito Francesco, prima del matrimonio erano stati presi accordi in base ai quali Maria, avrebbe eliminato dal suo stemma e arbitrariamente inserite, le armi d'Inghilterra e Irlanda; ma, violando gli accordi Maria non le aveva eliminate.

Questa eliminazione era stata decisa con nuovi accordi con la Scozia, (trattato di Edimburgo), che doveva essere firmato da Maria; Elisabetta aveva mandato in Francia l'ambasciatore Thronckmorton, con il trattato da ratificare.

Maria aveva ricevuto l'ambasciatore con l'aria corrucciata al quale aveva detto apertamente: “Gli affari del  regno in Scozia vengono mal condotti; mi ritengono la regina, ma non mi trattano come tale; io non ratificherò questo trattato e insegnerò ai miei scozzesi il loro dovere".

Madame, riprese l'ambasciatore, mi sembra di capire che non volete rinunciare apertamente ad usare lo stemma della mia signora e sicuramente essa non potrà ritenere certo il vostro benvolere nei suoi confronti”. Maria rispose “I miei zii (il cardinale e il duca di Lorena), hanno già dato la loro risposta su questo argomento sul quale non voglio più sentirvi parlare”! Tutto era stato riferito dall'ambasciatore a Elisabetta, che non dimenticherà.

In seguito Maria dichiarerà: “Nessuna parola di più sulla possibilità di una mia rinuncia alla corona. Prima di acconsentirvi preferisco morire e le mie  ultime parole da viva devono essere quelle di una regina di Scozia”. In questa frase piena di orgoglio in cui si concentrava anche la fermezza del carattere di Maria Stuarda e il suo attaccamento alla fede alla quale aveva  immolato la sua vita, fa ritenere che le sue mire di togliere il trono a Elisabetta fossero concrete e non ipotetiche come si era sempre dubitato.

Nel frattempo come successore di Francesco II, saliva al trono il fratello Carlo IX sotto la tutela di Caterina de’ Medici che diventava regina reggente, per cui Maria Stuarda, resasi conto di non poter più rimanere nella Corte francese, decideva di partire per la Scozia.

Per il suo viaggio di ritorno in Scozia, Maria, come aveva scritto Brantome, era stata agitata da tristi presentimenti che riteneva come un viaggio di morte e avrebbe desiderato cento volte restare in Francia come semplice regina dotaria; ma i suoi fratelli (sfrenati nell’ambizione di appropriarsi del regno) l’avevano sollecitata a partire; lei quando la nave si allontanava dal porto, appoggiando le braccia sulla poppa accanto al timone, guardava per l’ultima volta la Francia e mentre grosse lacrime le scendevano sul viso,  la salutava: Addio Francia, addio, Francia!   

   

 

 

LE PRIME ESPERIENZE

NEGATIVE DI MARIA

CON KNOX IL TRIBUNO

RIFORMATORE DI SCOZIA

 

 

 

L

’idea di Maria era quella di restaurare il cattolicesimo nel Sud della Scozia e combattere il protestantesimo della nobiltà del Nord e non appena metteva piede in Scozia, commetteva il primo errore tattico, maldestro e presuntuoso, con il terribile tribuno riformatore John Knox, che teneva in subbuglio tutto il paese.

La regina  lo aveva convocato, fidando sulle risorse delle sue argomentazioni e sulla sua sciolta ed elegante eloquenza:- “Il vostro oltraggio contro il governo delle donne (*), è pericoloso e violento; esso arma il popolo contro di noi che siamo regina; voi avete commesso un fallo e un peccato contro il Vangelo che ordina l’obbedienza e la benevolenza. Siate dunque più caritatevole d’ora in avanti verso chi non la pensa come voi”.  “Signora” - aveva risposto Knox - se colpire l’idolatria e sostenere le parole di Dio è incoraggiare la ribellione, io sono colpevole. Ma, se come io penso la conoscenza di Dio e la pratica del Vangelo portano il soggetto a obbedire al principe dal fondo del cuore, chi mi può biasimare? Il mio libro non è che l’espressione di un’opinione personale ...  In fatto di religione l’uomo non è tenuto a obbedire alla volontà del principe, ma a quella del suo creatore ... Maria: Pretendete dunque che il popolo possa resistere al re? Knox: Certamente se il re supera i suoi limiti. Knox: Tutto ciò che egli può chiedere è di venerare il re come un padre e se il padre cade nella frenesia, lo ferma. Quando un re vuole sgozzare i figli di Dio, si prende la spada, si legano le sue mani, lo si getta in prigione fino a quando non gli sia tornata la ragione, Qusta non è disobbedienza è obbedire a Dio”.

E così i colloqui erano proseguiti e Maria esasperata dal suo sangue freddo, dopo aver tentato la via della seduzione, del ragionamento, delle minacce, delle lacrime, dei singhiozzi e dello svenimento, lo aveva cacciato via. Attraversando una sala vicina dove si trovavano molte dame elegantemente abbigliate, egli si era fermato e aveva detto (come Amleto a Ofelia): Ah! Belle dame, ecco una vita affascinante; se solamente essa potesse durare e se andassimo in cielo con il velluto e con le perle. Ma la gran briccona della Morte, è là che vi afferrerà, vostro buon grado o mal grado, e questa bella pelle così tenera, così fresca,  la mangeranno i vermi; e questa piccola anima debole e tremante, come potrà portare con sé le perle e l'oro, guarnizioni  e merletti, ricami e fermagli? Ma dalla sala della regina era uscito un signore che lo aveva messo alla porta.

Knox continuerà a dirigere i suoi sermoni, misti a sarcasmi e ingiurie contro i costumi della giovane Corte, contro i Guisa, la danza, la musica e la vita licenziosa della regina. Maria cercava dal suo canto, di guadagnarsi ugualmente le simpatie di Knox e quella dei protestanti, ma le sue seduzioni non avevano successo; nello stesso tempo cercava di frenare i cattolici che erano indispettiti dalla vita che lei conduceva alla maniera francese, balli, concerti, passeggiate a cavallo, caccia, canti, poesie erano comportamenti che ferivano il fanatismo degli uni e degli altri.

Il suo carattere passionale le fece sempre seguire le ragioni del cuore e della sensualità, anziché quelle del suo Paese, commettendo un secondo errore, quello di di sposare Henry Darnley, capo dei cattolici inglesi, allacciando stretti rapporti con Filippo II di Spagna e con il papa, che appoggiavano le sue mire di impadronirsi del trono d’Inghilterra e dai quali si sentiva fortemente spalleggiata (Philarète Chasles).

 

 

 

*) Knox aveva scritto un libro introvabile sul Governo delle donne, “Regiment of women”, Il governo delle donne, violento trattato contro il mostruoso governo delle donne.

 

 

 

 

ALLA CORTE  SCOZZESE

GIUNGE  IL BEL DARNLEY

MALIZIOSO OMAGGIO

DI ELISABETTA

  

 

 

L

e cose erano a questo punto, quando a Corte (febbraio 1565) giungeva Henry Stewart Darnley (deliberatamente e maliziosamente mandato da Elisabetta), dall'aspetto di adolescente (era diciottenne), pieno di grazia, slanciato e snello (Elisabetta lo chiamava “yonder long lad-il lungo ragazzo”), biondo, senza barba, dalla carnagione delicata e dalla bellezza incantevole (*).

Maria vedova da tre anni, ne rimaneva colpita e, nonostante il suggerimento contrario di Elisabetta (l'etichetta delle corti prevedeva il suo consenso), come per provocarla  (**), decideva si sposarlo.

Henry (1545-1567) era figlio di Mattew Stuart conte di Lennox e Margaret Douglas, nipote di Margaret Tudor, sorella di Enrico VIII, che, in prime nozze aveva sposato Giacomo IV, e in seconde nozze Archibald Douglas, conte di Angus (***); Lennox aveva lasciato l’Inghilterra ed era andato a vivere in Scozia. 

Prima della celebrazione del matrimonio, Darnley aveva avuto un attacco di vaiolo e Maria (erano già fidanzati) andava a passare le notti presso il suo capezzale ... durante le quali i due fidanzati davano sfogo  alla loro intimità.  

A Corte il comportamento della regina era considerato poco rispettoso per le convenienze, mentre Darnley ancora convalescente, insultava i calvinisti, e facendosi beffe degli scozzesi, insultava i borghesi, ritenendo di potersi permettere tutto perchè amato dalla regina.        

Del padre di Darnley si diceva che non avesse un solo scellino ed era debitore di Lord Lethington per un prestito di cinquecento  corone e gli restava appena da dar da mangiare ai suoi cavalli; e se la regina Elisabetta gli avesse sospeso i viveri egli sarebbe stato ridotto all'estremo; e Maria era decaduta fino a questo punto?

Maria appena giunta dalla Francia, portando le abitudini francesi, aveva  offeso tutti gli scozzesi, il popolo che viveva ancora in maniera semibarbara e la nobiltà legata alla feudalità; e aveva offeso Elisabetta, appropriandosi delle armi e del titolo che le spettavano; ora offendeva nuovamente tutti sposando un  giovanottello debole, incerto corrotto e disprezzato. La sua vita in Scozia,  dispendiosa, brillante e gioiosa, si svolgeva tra balli, giostre, tornei, cene, partite di caccia e feriva e offendeva i puritani scozzesi. E siamo ancora all'inizio di tutti gli errori che Maria continuerà a compiere.

Tutti erano contrari a questo matrimonio: Elisabetta, i signori, i borghesi, i protestanti: Maria scriveva:  il mio cuore  piange per la mia personale  misera situazione; Murray, il fratello naturale, le diceva che non dava un bell'esempio di onestà. Lei lo aeva preso in disparte, chiedendogli di firmare il foglio che conteneva il suo consenso al matrimonio e il consenso a darle sostegno con tutte le sue forze.  Ma Murray non si decideva a firmare: “Bene! diceva Maria; avete letto; firmate se siete un suddito fedele se non volete rendermi scontenta”. “Madame”, aveva risposto Murray, dopo un lungo silenzio, “questa è una soluzione d'azzardo e questa richiesta mi coglie  alla sporovvista; che si dirà di una tale perentoria improvvisazione? Che diranno gli ambasciatori e i principi stranieri? Che dirà la regina Elisabetta con la quale state conducendo negoziati proprio per lui, dalla quale state attendendo risposta? Consentire a sposare un uomo che non sarà mai difensore del Vangelo (la cosa al mondo più desiderabile), un uomo che si è mostrato nemico, non protettore dei riformati, mi ispira una ripugnanza invincibile. Dunque rifiutate? Si Madame”, fu la risposta.

Pianti, collera, parole ingiuriose, minacce erano state la reazione di Maria; suppliche e lacrime, furono inutili; il sangue freddo di Murray sconcertò Maria che lo mandò via dalla Corte: Ritiratevi; siete un ingrato e mi pagherete questo insulto!

Dopo aver sfidato a questo modo Murray, Maria passava a provocare Elisabetta; le scriveva una lettera piena di eloquenza - riferirà sir Nicolas Thronkmorton - dispetto, furore, collera e amore: maestra in questo genere di composizioni. Le diceva di aver avuto l'intenzione di consultarla, almeno per salvare la forma, ma  era decisa a procedere da sola e scegliersi (per suo conto! ndr.) uno sposo ed essere nei fatti, regina!            

Sposare Darnley significava minacciare i protestanti e la stessa Elisabetta.   Darnley, primo principe di sangue inglese e cattolico, riuniva tutti i cattolici attorno a lui; i protestanti tremavano. Erano in tre singoli, contro tutti: Maria, Darneley e Riccio: una donna passionale, un vecchio segretario e un giovane scervellato, la cui arroganza diventava sempre più intollerabile.

Si andava ammassando contro Darnley,  un’animosità, un pericolo estremo; la sua arroganza diventava intollerabile (riferiva l’ambasciatore Thomas Randolph); per sopportare le sue  parole si  doveva essere schiavi e sopportare i suoi oltraggi; non li risparmiava per dimostrare la sua virilità e non risparmiava le ingiurie della sua collera a quelli che le accettavano.                     

Knox pescava nel torbido: non faceva altro che denunciare l'adulterio, l'incesto, la danza, la musica, le messe (cattoliche), l'idolatria, Roma, Babilonia, tutte le iniquità che si stavano abbattendo sulla Scozia: predicava con fierezza e senza altra ambizione che quella di compiere la sua missione, mentre  la borghesia scozzese lo ascoltava terrorizzata, senza pietà per le donne, senza condiscendenza per le signore, metteva in campo la cupidigia, la vanità, la bassezza, l'egoismo, la duplicità. 

Era  questo il clima che si respirava in Scozia quando il 29 luglio 1565. alle sei di mattina, nella cappella del castello di Holyrood, indossando lo stesso abito nero  indossato al funerale di Francesco II, Maria la giovane e brillante regina (di ventitre anni), concedeva la sua mano all’adolescente Henry Darnley (diciannovenne) detestato dal popolo; finita la cerimonia Darnley le chiedeva di cambiarsi d'abito.

Questo matrimonio era considerato odioso in tutto il paese; i nobili di Corte la detestavano, i predicatori si appellavano alle sentenze di morte e il popolo, impaurito si dava ai saccheggi, ai furti, agli assassinii, senza che la giustizia facesse il suo corso. Maria si sentiva sempre più isolata e si affidava agli inviati dei Guisa e ai cattolici, dai quali si attendeva una degna opposizione alla riforma (cit. Philarète Chasles).  

                                                            

 

 

*)  Questi pregi esteriori erano rovinati dall’inconveniente dell’alito, ma all’epoca non si teneva conto degli odori personali per la mancanza di pulizia.

**) Era l’intento di Elisabetta che faceva il doppio gioco, nel senso che ufficialmente si mostrava contraria al matrimonio, mentre Maria riteneva che sposandolo, Elisabetta le avrebbe lasciato il regno! ndr.

*) Maria Stuarda era a sua volta nipote di Giacomo IV figlio di Margaret Tudor ed era quindi cuginastra di Darnley, dal cui matrimonio era nato Giacomo che sarà VI di Scozia e come vedremo, I d’Inghilterra (1566-1625).

 

 

DAVIDE RICCIO

ASSASSINATO IN

PRESENZA

 DELLA REGINA

INCINTA

 

 

L

e persone di cui si corcondava aumentavano il suo discredito; Maria aveva come valletti di camera un certo Mingo (indicato dall’ambasciatore di Elisabetta, Randolph) e un piemontese di nome Davide Riccio (o Rizzio), di bell'aspetto, divertente, divenuto suo segretario e a conoscenza di tutti i suoi intrighi; impertinente come un parvenu, altezzoso con i nobili, sgarbato con i borghesi, vestiva magnifici abiti, sontuosi fino al ridicolo e ostentava un fasto insultante e presuntuoso.

In Scozia solo un uomo aveva accesso alla camera della regina ed era il suo segretario Davide Riccio che Darnley detestava, come italiano e come cattolico; Maria non si accorgeva che una nuvola di odio si andava formando attorno a lei. Oltretutto Maria mancava di prudenza e tendeva ad aver fiducia e legarsi con uomini spregevoli e abominevoli che alla fine la tradivano, come il suo fratellastro Murray, al quale rivelava i suoi piani segreti; questo li riferiva al suo ambasciatore d’Oselle, che a sua volta li riportava alla sua antagonista Elisabetta che a questo modo era a conoscenza di tutti i suoi piani segreti, fino ai suoi intimi desideri (Philarète Chasles).

Maria aveva una cieca fiducia in Riccio ed era sempre a suo stretto contatto a tal punto da essere inserito nel numero degli amanti, ma  questa illazione è da considerare falsa, come vedremo più avanti.

Dopo il matrimonio, la regina era divenuta più attiva, cacciava Murray dal reame e stringeva maggiormente i rapporti con la lega cattolica. Il papa inviava da Roma la somma di ottomila corone, della quale però se ne impossessa il duca di Northumberland. Filippo II dalla Spagna inviava ventimila corone che l'ambasciatore spagnolo Guzman de Silva teneva a disposizione della regina e della religione cattolica.

Riccio, per la predilezione della regina nei suoi confronti, diventava ancora più potente; italiano detestato, vestiva da gran signore, aveva disponibili due cavalli, due paggi e un seguito di gentiluomini. Darnley a sua volta rimproverava alla regina la sua eccessiva condiscendenza verso il segretario mentre a lui non venivano affidati affari di Stato; incominciava a ingelosirsi di Riccio e chiedeva la sua parte nel governo del trono, che lei gli rifiutava con decisione.

Maria incominciava già a sentire la stanchezza del rapporto; Darnley la avvertiva e furioso si dedicava alle distrazioni grossolane, all’alcol, al gioco, alla dissolutezza, trattava la regina con durezza e insolenza anche in pubblico.

La regina ora si pentiva del matrimoio e detestava Darnley e tutto ciò che gli apparteneva; Darnley folle di gelosia nei confronti di Riccio, entrava in un complotto di protestanti che intendevano assassinarlo.

Pare che il complotto fosse stato organizzato da Elisabetta (ricordiamo che Murray quando era stato mandato via da Maria si era recato difilato da Elisabetta!) e avrebbe dovuto provocare la deposizione di Maria e porre il regno nelle mani di Murray e dei protestanti, sotto il nome dell'impotente Darnley.

Sulla legittimità (morale) dell'assassinio, erano stati consultati Knox e Craig, i quali, da buoni fanatici avevano risposto che “la Chiesa doveva essere salvata a prezzo del sangue di un idolatra” (Knox nelle sue Memorie la definiva “meravigliosa tragedia”): I calvinisti scozzesi, ancora oggi si meravigliano che Knox, il loro idolo, avesse acconsentito all’assassinio di un povero musicista (scriveva Philarète Chasles).

 ll 6 Marzo 1566 alle sette di sera, cinquanta uomini armati circondavano il palazzo di Holyrood, bloccando tutte le strade; Darnley saliva attraverso una scala segreta che metteva in comunicazione il suo appartamento con quello di Maria ed entrava nella sala dove Maria cenava in compagnia di Riccio, Beaton, la contessa d'Argyle e il commendatore di Holyrood; si sedeva a fianco di Maria mettendole un braccio intorno alla vita e le sussurrava parole di tenerezza.

All'improvviso si vedeva entrare come uno spettro, un uomo interamente coperto da una armatura; era lord Ruthwen; Maria  incinta di sette mesi si alzava spaventata e gridava: Andate via! Ho una questione con Riccio, rispondeva Ruthwen, tirando dal fianco la spada; entravano i congiurati illuminando la sala con le torce; Riccio si attaccava alla regina gridando in italiano e francese: Giustizia, giustizia, salvate la mia vita; madame,  salvate la mia vita!

Maria implorava invano gli assassini; la tavola e le candele erano rovesciate; Carr de Faudonside appoggiava la sua pistola sul petto della regina e Riccio era trascinato fino alla porta della camera da letto, colpito da cinquanta pugnalate; il suo corpo portava conficcato in mezzo al petto il pugnale di Darnley, riconoscibile dai suoi ornamenti e cesellature; il corpo era lasciato in un mare di sangue.

Ruthwen rientrava nella sala con le mani sporche di sangue e si  gettava su una sedia vicino alla tavola;  prendeva una coppa, la riempiva di vino e alzandola verso la regina le diceva: vostro marito ha fatto tutto.  Ah! E' così dunque, rispondeva la regina; Addio, dunque, lacrime; Al tuo momento, vendetta!  (*).

Alla confusione e alle grida del palazzo, i borghesi si armavano, era suonata la campana e alla porta di Holyrood si presentavano seicento uomini; il re si presentava al prevosto e gli diceva: “Non è niente; io e la regina ci divertiamo”.

“Con il permesso di Vostra Grazia, vogliamo vedere la regina”, diceva il prevosto. “E io non sono il re”? Diceva Darnley. “Ritiratevi con la vostra truppa, ve lo ordino”. E il prevosto obbediva.

La regina incinta e sul punto di partorire, prigioniera dei suoi assassini, tra i quali suo marito, se ne fuggiva montando su un cavallo e andando a rifugiarsi a Dumbar, dal fratello di Davide, Giuseppe Riccio, dove partorirà (19 Giugno 1566)  questo bambino, degno figlio di Darnley, povero di spirito e ricco di vizi, miserabile e meschino come suo padre, che sarà il futuro  Giacomo I; e Maria che aveva il titolo di regina di Scozia, dopo aver partorito, diventava regina degli  scozzesi, vale a dire del popolo e non del regno come la legge del reame stabilisce meticolosamente (Philarète Chasles).

A Elisabetta, subito informata dell'accaduto, riferiscono, come era stato scritto al suo segretario Cecil “Che Riccio era stato assassinato perché trovato a dormire con la regina” precisando comunque “Che non fu mai vero”.

A tre mesi di distanza dall'avvenimento, Maria, nonostante la dichiarazione di Ruthwen, rifiutava di credere alla colpevolezza di Darnley; lei non poteva credere alla decisione di assassinare il suo segretario sotto i suoi occhi. Darnley stesso negava e a tutte le domande di Maria, egli rispondeva di essere innocente; che Rotwen, Morton e Carr avevano tramato e che lui aveva rifiutato  l'idea dell'assassinio. Così presentati, essi si irritano e presentano a Maria le prove della sua complicità con la dichiarazione firmata per sbarazzarsi dell'italiano; la firma del re confermava la sua partecipazione. Lei si rese finalmente conto della viltà del marito, traditore verso di lei e verso tutti, traditore del suo onore, spergiuro e infame, e pianse amaramente! I congiurati prendevano un altro impegno, giurando sul Vangelo, di eliminare Darnley.

 

 

 

*) Dalla completa corrispondenza pubblicata da William Robertson nella sua “Storia di Scozia”, non risultano riportati dettagli e parole pronunziate da Maria.

 

 

BOTHWELL

 LA NUOVA PASSIONE

DI MARIA E

L’ASSASSINIO

 DI DARNLEY

 

 

 

D

opo l’assassinio di Riccio, il Consiglio reale aveva disposto di rinforzare il servizio di sicurezza della regina incinta e la guardia del palazzo a Edimburgo era stata  aumentata, affidando il  comando a lord Jaques Hepburn, conte di Bothwell, capo di una potente famiglia e protestante, che disponeva di grandi proprietà e molti vassalli; era luogotenente delle frontiere, uomo temerario che aveva tutti i vizi, tranne l'ipocrisia e tanto feroce, quanto Darnley era debole.   

I rapporti della regina con il marito erano freddi, tanto che Darnley non aveva partecipato al lussuoso battesimo dato da Maria; nei viaggi che facevano per distrarsi, i nobili le portavano poco rispetto e lei se ne lamentava, confidandosi con Bothwell,  che la serviva con molto zelo.    

In questo periodo si stavano verificando delle sommosse che insanguinavano i confini tra la Scozia e l'Inghilterra e Bothwell era stato incaricato di andare a ristabilire l'ordine e durante un corpo a corpo con il capo dei rivoltosi che aveva ferito alla coscia con un colpo di daga, a sua volta, era stato ferito; preso dai suoi, lo avevano portato nel suo castello all'Ermitage, distante sei leghe da Jedbourg, dove la regina presiedeva una assise giudiziaria.

Nell’apprendere del pericolo corso dal suo fedele servitore, Maria (15 ottobre), sebbene incinta, montava a cavallo e si recava a visitarlo attraverso una strada impraticabile  e assisteva, consolava e incoraggiava il ferito, ma, al ritorno lei stessa si ammalava. Alcuni avevano pensato che vi fosse un legame tra i due e che lei si fosse ammalata per gli eccessi di una sfrenata passione alla quale si era data, per il disgusto che provava per l'ignobile marito.

Ma non era stato questo l’inizio del loro rapporto, compiuto invece con un atto di forza di Bothwell, che aveva approfittato di un momento di intimità in  cui si erano trovati; le esperienze di Maria, avute prima con un quattordicenne e poi con un diciannovenne, erano state quelle iniziali; con Bothwell (abituato a una vita dissoluta a dire di Hume), che ne aveva otto più di lei, presa con forza, si era trovata di fronte a sensazioni nuove e Bothwel, risvegliandole la sessualità, “si era impadronito del suo corpo, non del cuore”, come lei stessa aveva scritto in seguito; ma poi la passione le prenderà anche il cuore e idealmente la testa (*), che la porteranno verso tutte le sue  successive sventure!             

E’ in questo periodo che Maria si univa ai nemici di Darnley, vale a dire Murray, Bothwell, Huntly, Argyle e Maitland segretario di Stato, i quali, segretamente riuniti a Craigmillar (con la partecipazione anche Maria),  avevano deciso il divorzio e l’esilio di Darnley, mentre Maria avanzava la vaga idea di ritirarsi in Francia. Ma Maitland le aveva detto: “Signora, qui siamo i principali rappresentanti della vostra nobiltà e del vostro reame e troveremo certamente il mezzo per sbarazzarci di lui, senza fare alcun torto a vostro figlio.”. 

Di fronte a queste parole oscure e ambigue ma all’epoca era comune nelle corti esprimersi in questo modo, era come dire, “disfarsi di Darnley”; Maria rispondeva meravigliandosi flebilmente che “avrebbe preferito lasciare la cose come stavano e pregare Dio nella sua bontà, di portare rimedio ai mali presenti e di evitare ciò che in futuro sarebbe tornato a suo pregiudizio”. Al che, Maitland, approfittando della incertezza della regina, le aveva risposto: Lasciate fare a noi; Vostra Grazia non vedrà che buoni risultati, che avranno subito l'approvazione del  Parlamento.

Non appena questa ambigua conversazione aveva avuto termine, l'accordo dei congiurati, redatto da sir James Balfour, era sottoscritto da Bothwell, Maittland, Huntly e dallo stesso Balfour e consegnato a Bothwell.

I congiurati ritennero a tal punto di interpretare la volontà della regina, che uno dei personaggi secondari, presente, Ormiston, avendo manifestato a Bothwell i suoi scrupoli, questo gli aveva risposto: “Andiamo, Ormiston (che in seguito finirà sul patibolo!) questa decisione era stata concordata da diverso tempo  a Craigmillar dai signori e dalla regina”.  

Henry Darnley si trovava a Glasgow, dove era convalescente da una malattia che era stata considerata come tentativo di avvelenamento da parte di Maria; la regina si recava a trovarlo (22 Gennaio 1567); Darnley era debole e scusandosi, non voleva riceverla: Lei gli diceva che certamente aveva paura e per la paura non vi era alcun rimedio; ma entrava ugualmente nella sua camera da letto e avevano un colloquio, dal quale emergeva che Darnley fosse a conoscenza del complotto per assassinarlo.

Al diniego della regina, egli la metteva con le spalle al muro, dicendole che l'unico modo per potersi salvare, era quello di stare insieme a lui; Maria gli rispondeva di essere d’accordo e di aver portato una lettiga per trasportarlo a Craigmillar e di non rivelarlo a nessuno; ma Bothwell ne era a conoscenza in quanto la casa dove si erano recati, sebbene sconosciuta, era sua; piuttosto spoglia di mobili, in quanto disabitata, con la  camera da letto di Maria sottostante a quella di Darnley.

Maria aveva offerto un ballo in maschera (6 Febbraio 1567) per il matrimonio di un suo valletto di camera e dopo aver passato tutta la giornata con suo marito, era con lui, quando nella casa entravano, senza farsi sentire (avevano le chiavi), componenti della guardia del corpo di Bothwell, che portavano sacchi di polvere esplosiva e dopo averli collegati a una  miccia, andavano via; Maria, dopo aver salutato il marito, si recava alla festa.            

Mentre il paggio  di Darnley, Taylor, dormiva su un cuscino, un rumore di chiavi svegliava Darnley, il quale metteva sulle spalle nude una pelliccia e scendendo le scale seguito dal paggio; gli assasssini strangolano lui e il paggio, portando i due cadaveri in un frutteto e lasciandoli sotto una muraglia.

Bothwell, presente alla festa, la abbandonava a mezzanotte e dopo essere andato a cambiare il suo lussuoso costume, raggiungeva gli assassini; al suo arrivo era dato fuoco alla miccia che provocava un’esplosione, che faceva saltare la casa e svegliava la città addormentata. Dopo l’esplosione Bothwell se ne andava a dormire e faceva un sonno tranquillo; al mattino  il domestico gli comunicava la catastrofe ed egli, sceso dal letto, gridava “tradimento”. 

La complicità di Maria, o la sua connivenza, era entrata nella generale notorietà;  Bothwell trionfante per l'assassinio, percorreva le strade a cavallo, armato fino ai denti, seguito da cinquanta dei suoi uomini, con  la mano sul pugnale, dicendo alla gente “Se vengo a conoscere il nome di uno di quelli che hanno attaccato questi manifesti ai muri, la mia mano sarà presto lavata con il suo sangue”. Uno di questi manifesti diceva: “Addio gentile Enrico e vendetta contro Maria”. A Maria che attraversava a cavallo la piazza del mercato, dicevano: “Dio salvi Vostra Grazia, se non è coinvolta nella morte del re”. Il padre di Enrico reclamava l'inchiesta e accusava Bothwell dell'assassinio.

Dalla Francia non solo i Guisa ma la stessa Caterina e dall’Inghilterra, Elisabetta, condannavano il crimine che aveva destato esecrabile orrore in Europa, e richiedevano, senza ritardo la punizione dei colpevoli; Knox, mentre se ne fuggiva per nascondersi nei boschi, aveva chiesto “Rivelate e vendicate”.   

Bothwell era stato processato e assolto e si era anche offerto di provare la propria innocenza col duello; nello stesso tempo. si parlava delle nozze di Maria, per necessità del governo e si riteneva favorito Bothwell, il quale, un giorno, mentre Maria si stava recando con la sua scorta a Stirling, per visitare il figlio, la circondava con i suoi uomini e la conduceva a Dunbar, quasi come prigioniera.

                                                                                                                         

 

LE DISASTROSE

CONSEGUENZE 

DEL MATRIMONIO

DI MARIA CON BOTHWELL  

 

 

I

l motivo di questo rapimento non era chiaro e pare che Maria fosse d’accordo; era loro intenzione sposarsi, ma Bothwell era già asposato con la sorella del conte di Huntley e si rendeva necessario l’annullamento del loro matrimonio, che fu pronunciato per adulterio, per il quarto grado grado di parentela che univa Bothwell alla moglie.

Dopo avergli comcesso il titolo di duca di Ornay, Maria  sposava Bothwell (15 Maggio 1567), con una semplice cerimonia, alla quale avevano assistito pochi nobili in quanto officiata da  un vescovo protestante, ciò che aveva aumentato i sospetti sulla sovrana, per l’assassinio del re.

Non solo, ma sorgeva il sospetto che Bothwell volesse impadronirsi del principe fanciullo, per cui un gruppo di nobili  riuniti a Stirling si erano confederati in una  lega con a capo il conte d’Athole e con i conti d’Argyle, Morton, Marre e Glencairn, ai quali se ne unirono altri (**), formando un corpo di ottocento cavalieri che si scontrarono a Carberry Hill, a sei miglia da Edimburgo, con il corpo della regina, che vi partecipava con Bothwell.

Maria si accorse subito che i suoi non approvavano la sua causa e non si mostravano disposti a versare il loro sangue per quella contesa e la regina non trovò altro da fare  che offrirsi ai confederati; condotta prigioniera e confinata nel castello di Lochleven, posto in mezzo a un lago, fu costretta ad abdicare in favore del figlio Giacomo.

Bothwell, come scriveva D. Hume, non aveva dato alcuna prova di arditezza ed era fuggito prima nel suo castello a Dunbar; successivamente si imbarcava per le Orcadi, dove visse per qualche tempo di pirateria; poi si recava in Danimarca, dove era arrestato e messo nelle prigioni, impazziva morendo dieci anni dopo (1578).

Elisabetta informata di tutto ciò che stava avvenendo dal suo ambasciatore Tronghmorton e commossa per la sorte di Maria, lo incaricò di presentare tutte  le sue rimostranze ai confederati, per il trattamento che stavano riservando alla regina, alla quale l’ambasciatore riferiva della disponibilità di Elisabetta a prestarle aiuto.

Maria riusciva a fuggire dalla prigionia (Walter Scott ne aveva fatto un piacevole racconto), e, tenendo conto della disponibiltà ultimamente mostrata da Elisabetta a prestarle aiuto, si imbarcava su un battello di pescatori a Galloway, approdando a Wirkington nel Cumberland, recandosi al castello di Carlisle, a trenta miglia di distanza, da dove mandava un messo per avvertire Elisabetta del suo arrivo, chiedendole il permesso di visitarla.

Ciò costituiva una vera sorpresa per Elisabetta, a causa dei problemi di carattere politico che le aveva subito rappresentato Cecil, che avrebbero comportato la accoglienza di una regina sospettata dell’assassinio del marito. Elisabetta decise quindi di mandare lady Scrope, sorella del duca di Norfolk, accompagnata dal marito, lord Scrope  e dal vice-ciambellano Francis Knollis, per rappresentarle il dolore della regina per le sciagure che l’avevano colpita, ma al momento la richiesta della visita non poteva essere esaudita, se prima non si scolpava dell’assassinio del marito di cui era accusata.

Per questo motivo Elisabetta non poteva mostrarsi indifferente, in quanto si trattava dell’assassinio di un prossimo congiunto; ciò avrebbe comportato una indagine, per mezzo di due commissioni, scozzese e inglese, per sentire le giustificazioni degli avversari di Maria, che sarebbero stati mandati dal reggente di Scozia, Murray, al quale Elisabetta aveva già fatto la richiesta.

Maria era scoppiata in lacrime, ma trangugiando il rospo, non potette fare altro che rispondere, per mezzo di lord Herreis, che di buon grado avrebbe giustificato ogni colpa di cui era accusata; ma l’impresa era ardua in quanto dovevano essere sentiti i suoi avversari; in ogni caso Maria mandò a perorare la sua causa, presso i commissari nominati da Elisabetta.

Intanto Maria, con la sua eloquenza, insinuante e affabile, era riuscita a  convincere  coloro che la circondavano, di essere innocente, dichiarando che era decisa a chiedere soccorso ai suoi amici in Europa per vendicarsi dei suoi persecutori. Riferiti questi particolari alla Corte, poiché Carlisle era città di confine, Maria, oramai considerata prigioniera, ad evitare tentativi di fuga, si ritenne opportuno portarla a Borton, in una villa di lord Scrope nello Yorkshire.

Giunti i commissari dalla Scozia, si riunirono agli inglesi (***) e nominati  gli assistenti Lidington e lo storico Geoge Bucanan, e furono trasferiti a Londra, a Hampton Court, per svolgere òe loro sessioni.

La Commissione, sulla base delle accuse del reggente, conte Murray, in possesso di lettere scritte da Maria a Bothwell (che Maria gli aveva chiesto di bruciare ma Bothwell non lo aveva fatto), e sulla base delle accuse del conte Lennox, padre di Darnley, da cui emergeva la colpevolezza di Maria, invitata a discolparsi dalle accuse, oppose un rifiuto e questo rifiuto fu opposto anche dai suoi commissari; ma dopo che le sessioni erano state dichiarate cessate,  Maria accusava tardivamente Murray e suoi complici, dell'assassinio del re; ma l’accusa era considerata come recriminazio-ne dettata da rancore, e fu dichiarato cessato il compito dei commissari, con un nulla di fatto.

Poiché la città di Bolton, dove si trovava la regina di Scozia, era attorniata da cattolici, ad evitare turbamenti, Maria era trasferita a Tutbury, nella contea di Stafford, dove era consegnata in custodia al conte di Shrewsbury; da questo momento Maria Stuarda rimarrà segregata come prigioniera, sebbene il termine ipocritamente usato fosse “honourable custody” (onorevole custodia).               

 

 

      

*) La passione di Maria era arrivata al punto che non le importava perdere la Francia, la Scozia e l'Inghilterra: piuttosto che lasciarlo, con lui andrei in capo al mondo in jupon blanc, in sottoveste bianca (che era quella usata normalmente a quel tempo). La regina è folle e i nobili sono schiavi; la regina - aveva scritto de la Grange, uno dei più considerevoli personaggi di Scozia, al duca di Bedford - ha rovinato tutto  ciò che di onesto vi è in questo paese; ha concordato (con Bothwell) di farsi prendere (prigioniera) per compiere il matrimonio.

 **) I lords Boyde, Lindsay, Huntly, Semple, Kirkaldy de la Grange, Murray di Tullibardin e il segretario Lidington.   

***) Il reggente conte Murray, il conte Morton, il vescovo di Okney, lord Lindsay e l’abatre Dunferlmling, con gli assistenti segretario Lidington e lo storico George Bucanan e destinata la città di York, dove  convennero anche i commissari inglesi, il duca di Norfolk, il conte di Sussex  e sir Ralph Sadler; deputati dalla regina Maria. il vescovo di Ross e i lords Herreis, Levingston e e Boyde, artbtra la regina Elisabetta.   

 

 

GIACOMO I DI SCOZIA

FINALMENTE

 RE D’INGHILTERRA

 E LA CONGIURA

DELLE POLVERI

 

 

E

lisabetta, quando era in vita, non aveva mai voluto fare il nome del suo successore e aveva atteso fino all’ultimo momento per sussurrare a Robert Cecil il nome di Giacomo di Scozia, come già aveva indicato nel testamento; Cecil volle assicurarsene immediatamente e fece aprire il testamento, trovando conferma di quanto gli aveva detto la regina; il Consiglio reale decise che Giacomo dovesse essere dichiarato re d’Inghilterra come Giacomo I (1603-1625) e la risoluzione fu comunicata al Sindaco di Londra.

Si ritiene che Cecil, da una parte avesse mandato segretamente un messaggero a Edimburgo per avvertire il re; mentre il Consiglio reale dava incarico a Robert Carrey, figlio del conte di Hunsdon, di portare ufficialmente la notizia al re di Scozia e invitarlo a recarsi a prendere possesso del regno. Quando gli fu data la notizia Giacomo rimase impassibile, e nessuna alterazione era apparsa sul suo viso, ciò che fa ritenere che egli già fosse a conoscenza della sua nomina.

L’anno successivo alla sua incoronazione (1604), a Londra si diffondeva la peste, che in un anno faceva trentamila vittime, su una popolazione di centocinquantamila abitanti.

Con il nuovo regno cessava la magia dell’epoca elisabettiana e si riaccendeva la tradizionale lotta della nobiltà e della borghesia contro il sovrano, che intendevano condividere il potere per mezzo del Parlamento e per impedire ai monarchi d’imporre a loro piacere una determinata confessione religiosa.

Il governo di Giacomo I non brillava dei grandi avvenimenti che si erano verificati sotto il regno di Elisabetta, alcuni dei quali, iniziati sotto Elisabetta, si erano esauriti o avevano proseguito fino al loro esaurimento.

Il suo assolutismo si scontrava con il Parlamento, dove la borghesia era divenuta potente in seguito alla estinzione della feudalità e all’arricchimento conseguito dalla industria e dai traffici (*). Inoltre Giacomo si era dovuto barcamenare tra due popolazioni, quella scozzese ancora arretrata e legata al feudalesimo e quella inglese più avanzata, oltre a una miriade di sfaccettature religiose che derivavano dai due rami principali del cattolicesimo e protestantesimo e in ogni caso si fondavano tutti sullo stesso principio di odio che li spingeva alla eliminazione fisica dell’avversario come si vedrà più avanti,  nella descrizione della congiura delle polveri.

Giacomo era di educazione presbiteriana e sua intenzione era di unificare la popolazione dei due paesi in un’unica confessione religiosa; in Scozia John Knox, dopo essere stato a Ginevra, aveva perfezionato le sue idee religiose con quelle calviniste che si erano affermate in base al sistema presbiteriano, (da presbuteros, anziano) (**), intermedio con l’episcopalismo; mentre tra i calvinisti inglesi si distinguevano i “godly-puritani, che si consideravano “uomini di Dio”, in quanto volevano purificare la Chiesa inglese da ogni permanenza cattolica.  

In Inghilterra dopo la prima riforma introdotta da Enrico VIII, con la elezione di Elisabetta, era stato approvato l’ “Atto di Supremazia” (1559) col quale era eliminata la legislazione antiprotestante introdotta da Maria e nello stesso anno era pubblicato un nuovo “Libro della Preghiera Comune” e successivamente (1562)  erano approvati i “Trentanove Articoli di Fede” che con una visione unitaria di cattolicesimo, luteranesimo e calvinismo, delineavano i caratteri della Chiesa Anglicana.

Giacomo I sebbene  dotato di una vasta cultura umanistica, era  stato bersagliato dalla maggior parte degli storici che lo ritenevano debole di carattere  e aveva messo le finanze dello Stato nelle mani dei suoi favoriti che avevano avuto  esiti disastrosi. Di lui era stato detto, che “sopperiva con i maneggi e le insinuzioni e la sua prudenza degenerava in pusillanimità”; sulla sua cultura, era stato scritto che: “affettava l’erudizione ed era istruito in cose inutili”; essendo versato in teologia, accettava volentieri le dispute religiose ed  era stato scritto “che si piccava sui dogmi, sulle bolle e sull’origine del potere” (Cantù). Ma, aveva dato un saggio della sua cultura scrivendo tre trattati.

Nel primo, a seguito del “giuramento” che aveva imposto ai cattolici, i quali  dovevano riconoscere l’autorità reale e non tener conto della autorità del papa che si arrogava il diritto di nominare e destituire i monarchi, il cardinale Bellarmino, col nome di Mattia Tortus, aveva scritto un libro contro il giuramento (***) e Giacomo aveva risposto con l’Apologia, divenuto rarissimo; inoltre, poiché egli credeva fermamente nel diavolo, aveva scritto un trattato di Demonologia (****). Infine, essendo un convinto sostenitore del potere. aveva scritto il “Basilikon Doron”, un trattato sull’assolutismo e sul diritto del sovrano e sulle origini del potere, che è stato attualmente dopo oltre quattro secoli, dato alle stampe (*****).

I cattolici che avevano confidato nella sua nomina per potersi riaffermare, si erano sentiti traditi quando Giacomo I aveva lasciato in corso le disposizioni vigenti contro di loro ed era stata presa la decisione di un attentato (congiura delle polveri) di ampie proporzioni che coinvolgesse non solo il re e la sua famiglia ma anche il Parlameno, nei suoi due rami; questa idea era emersa da un colloquio tra due cattolici che poi erano divenuti i due principali organizzatori, come risulta dal racconto che segue (di  David Hume).

Nella primavera del 1604, Catesby, gentiluomo di antica famiglia, dotato di buone qualità, aveva immaginato per vendetta, un modo più straordinario che mai, e ne aveva parlato con Piercy, discendente dall’illustre casato dei Northamberand.

Ragionando un giorno tra loro dell’infelice condizione dei cattolici, mentre Piercy rieneva che il problema si potesse risolvere assassinando il re; Catesby coglieva l’occasione per fare un disegno più vasto,  che non solo avrebbe offerto una più sicura vendetta, ma dava delle speranze, per restituire il cattolicesimo all'Inghilterra, esprimendosi nel modo seguente: “Invano si toglierebbe la vita al re, se rimangono superstiti i suoi figli che ascenderebbero al trono con le stesse massime di governo. Invano si  spegnerebbe la intera regia stirpe, perché nobili, gentiluomini e parlamento, infetti tutti da una stessa eresia, innalzerebbero al trono un altro principe e un'altra stirpe che oltre ad aborrire la nostra religione sarebbero animati dalla brama di vendicare la morte dei suoi predecessori. Ad ogni buon fine occorre distruggere ad un tempo re e regia famiglia, lords e Comuni, per seppellire sotto una sola rovina i nostri nemici. Per buona sorte si radunano tutti alla prima sessione del Parlamento e abbiamo così l'opportunità di una gloriosa e utile vendetta. Non occorrono grandi  preparativi; bastano pochi di noi per collocare le polveri sotto la sala dove sogliono congregarsi e nell'istante dell'arringa del re alle due Camere, darvi fuoco e sterminare quei giurati nemici di ogni pietà e religione.   ...  e gli empii che vi si trovano rinchiusi ... passeranno dalle fiamme di questo a quelle dell’altro mondo per soffrirvi eternamente i tormenti dovuti alle loro colpe”. Piacque a Piercy il progetto di Catesby e convennero di parlarne col capitano Fawkes, che si trovava nelle Fiandre e mandarono a chiamare con Thomas Winter.  

Nessuno dei partecipanti, commentava Hume, si era posto il problema di qualche dubbio morale su questa carneficina, in cui si sarebbero trovati anche dei cattolici, ma Tesmond membro, e Garnet superiore dell’Ordine dei Gesuiti, tolsero ogni dubbio dimostrando come i vantaggi della religione esigessero che l’innocente potesse essere, in quella cicostanza, sacrificato col reo (secondo altri li benedissero, assolvendoli). Non solo, ma Everard Digby, uno dei partecipanti condannato a morte, scrivendo alla moglie dopo la condanna, in riferimento alla strage che doveva essere compiuta, le diceva di non aver ritenuto di commettere peccato.

L’anno seguente (1605) quando era stata fissata l’apertura del Parlamento un pari cattolico, lord Monteagle, figlio di lord Morley, riceveva una lettera anonima che diceva: “Vi consiglio, se tenete alla vita, di trovare qualche scusa per rinviare la vostra presenza al Parlamento, perché Dio e gli uomini si dispongono a punire la perversità del secolo. Questo consiglio non è da disprezzare in quanto è per il vostro bene e non vi può causare alcun danno: il danno sarà passato quando avrete bruciato questa lettera”.

Lord Monteagle, portò la lettera a Robert Cecil, che andò a mostrarla al re. Il Cosiglio reale ritenne non darle importanza, solo il re ebbe subito l’intuito di una esplosione. Nella ispezione eseguita nella notte che precedeva l’apertura del Parlamento, (5 novembre 1605), infatti, sotto la Camera Alta, furono trovati in un magazzino di carbone, trentasei barili di polvere da sparo, ricoperti da fagotti e fascine di legna, sotto la guardia di Fawkes, che se ne stava in un cantone al buio e aveva tutto l’occorrente per dar fuoco alla miccia; messo sotto tortura fece il nome dei complici, tutti cattolici, tra i quali Catesby e Piercy, Digby, Rookwood, Winte che finirono nelle mani del carnefice; altri furono uccisi nella contea di Warwick, per la resistenza opposta con le armi, compresi i due gesuiti che avevano assolto Catesby e Piercy.  

 

 

 

*) Era il capitalismo che secondo Karl Marx  stava nascendo dal protestantesimo, come sostenuto da Max Weber o secondo Werner Sombart, si stava rinnovando.

 (**) Da tener presente che il regime primitivo della amministrazione della Chiesa, era fondato sul governo dei capi spirituali (vescovi) assistiti dai più considerevoli tra i  suoi fedeli.

***) Il titolo completo era: Tortura torti. Triplici nodo triplex cuneus, sive apologia pro juramento fidelitatis adverso duo brevia pontificus Pauli V et epistolam cardinalis Bellarmini ad G. Blanckvellum archypresbiterum nuper scriptam. Londini excutebat Robertus Burckerus, 1607 in 4°.

****) Giacomo I Stuart, dieci anni dopo “Demonomania” di Bodin (v. in Schede S.: L’inquisizione tra intolleranza religiosa ecc. P. II) e i testi di Scot, pubblicava (1597) il trattato “Demonologia” con il quale non solo non cambiava la linea di credenze di Bodin, ma criticava Reginald Scot  il quale nel suo libro “Scoperte della stregoneria” (1584) si era mostrato assolutamente contrario alla interpretazione diabolica; successivamente, dopo i processi che avevano coinvolto adolescenti, cambiò orientamento e giunse a negare quanto veniva attribuito a streghe e diavoli.

*****) Tradotto in italiano con versione inglese da Luca Tenneriello. 

 

                                       

LA FINE

DELLA SFORTUNATA

DINASTIA

DEGLI STUART

 

 

G

iacomo I di Scozia e d’Inghilterra moriva di febbre terzana avuta dopo una partita di caccia (1625), lasciando, il figlio secondogenito Carlo, essendo morto il primogenito Enrico e una femmina, Elisabetta, andata in sposa all’Elettore Palatino.

Quando Carlo I ((1600-1649), assumeva il potere, si era trovato già insediato ad avere le redini del regno. George Villiers, duca di Buckingham il quale come  favorito di Giacomo I che gli aveva concesso il titolo, aveva distribuito tutte le cariche di Corte tra suoi uomini e, favorito anche del nuovo re, aveva nelle sue mani tutte le leve del potere; era stato descritto come uomo ben fatto, il più galante, magnifico e fiero, con lo spirito francese e cuore inglese; conosceva tutte le astuzie di Corte e le sdegnava: ignorava gli affari e ne era l’arbitro; il suo coraggio brillava nel calore di un combattimento e nel pericolo mostrava il suo sangue freddo; abiuato alla compiacenza del re, detestava chi gli opponeva resistenza. Sarà assassinato (28 agosto 1528) da un ufficiale di nome Felton il quale non si diede alla fuga e nel suo cappello era stato trovato un biglietto con l’ultima rimostranza della Camera; Feltono si era giustificato dell’assassinio del duca, dicendo semplicemente che il duca era nemico del regno.

Il giovane re, imbevuto dei principi dell’autorità sovrana che si era sviluppata nel continente, contro le aspettative del popolo che pretendeva di prender parte agli affari e al governo del regno, sin dall’inizio del regno, si metteva in rotta con  il Parlamento.

Il Parlamento era formato dalla Camera dei Lords, composta originariamente da centoventi membri e dalla Camera dei Comuni, con cinquecento tredici deputati che Carlo   aveva ridotto (1549) a 80 rappresentanti.

Quando all’inizio del regno Carlo I aveva convocato le due Camere (18 Giugno 1625), si era trovato di fronte alla presentazione di una massa di griefs (*) da parte della Camera dei Comuni, che per il loro esame ne avrebbero bloccato l’attività, per cui decise il suo scioglimento.

Essendosi presentata una nuova necessità, il re convocava  (1626) le due Camere, che sperava di trovare più docili; ma questa volta la Camera dei Comuni, accusando Buckingham, protetto dal re, era risoluta a rovesciarlo, ma egli respingeva tutte le accuse presentate nei suoi confronti e il re le scioglieva nuovamente (15 Giugno 1626). Le necessità (la guerra con la Francia per la Rochelle) richiedevano una nuova convocazione e il Parlamento era nuovamente convocato  (17 Marzo 1628); nel discorso pronunciato alla sua apertura il linguaggio del re era stato fiero e minaccioso, ma i rappresentanti dei Comuni avevano intenzione di proclamare le loro libertà e farle riconoscere e si era formato un gruppo con lord Strafford (Wentworth), Benzil, Hollis Pym e altri che erano alla testa della coalizione parlamentare.

La Camera dei Comuni (8 Maggio 1628) dopo aver votato la “Petizione dei diritti”, era stata presentata al re che doveva firmarla, ma il re non si decidava a farlo; la reazione era stata violenta e Carlo e Buckingham si erano spaventati, ma il re prendeva ancora tempo concedendo una proroga alle Camere fino al Gennaio 1629. Ma nel frattempo (7 Giugno 1628) il re si presentava alla Camera dei Lords, dove erano riuniti anche i rappresentanti del Comuni, dai quali veniva nuovamente presentata la petizione, che finalmente era approvata con la formula “sia reso diritto come richiesto” (Guizot, Histoire de la Révolution d’Angleterre, Paris, 1845).

La petizione disponeva tra l’altro, che il re non potesse imporre tasse senza il suo consenso, la guarentigia della libertà individuale dei cittadini e l’abolizione delle corti marziali.   

Alla scadenzaa della proroga, concessa alla Camera, Carlo volle vendicarsi per la concessione della petizione, chiudendo il Parlamento (gennaio 1629) e governando senza più riaprirlo fino al 1640, abbandonandosi ad arbitri di ogni genere, facendo rivivere diritti aboliti, esigendo contribuzioni fino allora ignorate e perseguitando particolarmente i puritani (che derivavano il loro nome dall’aspirazione e dal desiderio di purificare le idee che si avvicinavano a quelle calviniste).

La lotta di Carlo (che era stata guerra contro gli inglesi ribelli e scozzesi, di cui non parliamo), col Parlamento diveniva guerra civile (1645) anche per le ambiziose mire di Oliviero Cromwell, che faceva parte della Camera dei Comuni ed era luogotenente generale di Fairfax, nell’armata del Parlamento, sostenuto da  Ireton, Skippon e Fleetwod, membri del Parlamento, che mantenevano i rapporti con l’armata, riempita di uomini di loro fiducia.

Costoro sostenevano che l’autorità sovrana inizialmente risiedeva nel popolo che l’aveva concessa al re, scelto dal popolo,  per governarlo secondo le leggi; avendo il re abusato del contratto primitivo, l’autorità sovrana ritornava al popolo che ne era il detentore. Così i parlamentari, come rappresentanti del popolo si ritenevano in diritto di cambiare la primitiva forma di governo, avuto riguardo al contratto che il re aveva violato (**).

Da ciò conseguì che la Camera dei Comuni (ma promotore segreto del colpo di Stato era Cromwell) predisponeva un atto che aboliva la monarchia e dichiarava la Repubblica.

La Camera inoltre, all’inizio del mese di marzo, provvedeva a nominare l’Alta Corte di Giustizia presieduta da John Bradshaw, per processare il re che il 4 Giugno era  prelevato a Holmby dal reggimento di Fairfax, per disposizione di Ireton e Cromwell (di cui Ireton era genero) e trattenuto nel castello di Windsor.

Il re era stato messo sotto accusa in base ai principi enunciati: 1. Che il potere sovrano risiedeva nel popolo; 2. I Comuni d’Inghilterra, riuniti in Parlamento essendo stati scelti per rappresentare il popolo, avevano nelle loro mani l’autorità della Nazione; 3. Che i Comuni dichiaravano di essere Legge, con forza di Legge e il popolo era obbligato a obbedire, anche senza il consenso del re e dei signori.

Questi principi in fondo, erano contrari alla Costituzione del Governo inglese e conformi a una dichiarazione di indipendenza, la cui intenzione era di cambiare la monarchia in repubblica. L’Alta Corte nel giudizio del re, osservava le stesse regole applicate a un criminale ordinario e il principale punto d’accusa era che il re aveva fatto guerra al Parlamento e aveva voluto cambiare le modalità di governo, rendedolo arbitrariamente tirannico.

Il re aveva presentato una memoria in cui contestava la giurisdizione della Corte, facendolo comparire come un delinquente; egli inoltre sosteneva che non poteva essere giudicato senza l’autorità delle leggi  divine o municipali e che la Camera dei Comuni non aveva il potere di nominare l’Alta Corte in quanto, per avere tale autorità sarebbe stata necessaria l’approvazione della Camera dei Lords e la firma del re (cit. Guizot).

Il re, condotto per tre volte davanti all’Alta Corte si era rifiutato di riconoscere la sua giurisdizione e il rifiuto era stato considerato come confessione. Teminato il processo con la sentenza, il re era dichiarato colpevole di tradimento e condannato a morte e decapitato (***) sul patibolo, fatto in prossimità delle finestre della gran sala di Withe Hall.

Egli aveva affrontato la morte con dignità e poiché la causa della sua morte era stata  anche la religione, era morto come martire, come la nonna Maria (e anche i rispettivi processi avevano delle somiglianze nelle arbitrarietà): fu sepolto a Windsor nella cappella di Saint-Georges dov’era sepolto Enrico VIII.

Alla morte di Carlo I, dopo essere stato nominato un Consiglio di Stato, incaricato del potere esecutivo, le redini del regno erano assunte da Oliviero Cromwell che instaurando il periodo della Repubblica democratica (1649-1659), attuava una politica di espansione che assicurava all’Inghilterra la  Giamaica in America e Dunquerke sulla Manica, sebbene di Cromwell sia stato detto che era stato più degno di esecrazione che di ammirazione.

Di contro nei confronti della potenza commerciale olandese, con l’Atto di navigazione, col quale gli stranieri potevano trasportare nella Gran Bretagna e in Irlanda i propri prodotti; col divieto di cabotaggio, sicchè la marina olandese che trasportava soprattutto prodotti altrui, fu come bandita dai porti; questo atto spinse gli Inglesi ad armare numerose navi proprie e a gareggiare con l’Olanda.

La fattiva politica di Cromwell venne annullata dalla restaurazione degli Stuart; Carlo II perseguiva una politica d’intesa con la Francia, dannosissima per l’Inghilterra, mentre all’interno, dopo aver dapprima governato d’accordo col Parlamento e aver sancito (1673), il “Test Act”,  che, per essere ammessi ad un impiego, imponeva il giuramento di seguire le credenze anglicane.  Nel 1679, era stato istituito l’ “Habeas corpus ad subiciendum Act, che dava ad ogni arrestato il diritto di essere condotto, col mandato di cattura, in tribunale, dove si decideva se dovesse essere rinviato con cauzione, o trattenuto agli arresti.

Carlo II aveva sciolto la Camera dei Comuni,  governando senza di essa, quando questa, pretese di escludere, suo fratello Giacomo dalla successione perchè era cattolico e non avrebbe potuto giurare  il “Test Act”; fu in quest’occasione che tra episcopali regi e presbiteriani repubblicani, che si odiavano più dei protestanti e cattolici, si formarono i due partiti, distinti in Tories e Whighs; i primi riconoscevano la successione di Giacomo II, i secondi non la riconoscevano; questa divisione era stata accompagnata da un enorme spargimento di sangue e una folla di crimini (per l’odio che nasce tra gli antagonisti nelle religioni, come nei partiti come succede ancora oggidì,   ndr.). 

Così Giacomo II potè ugualmente succedere al fratello nel 1688, ma si perse con  i suoi tentativi di stabilire il cattolicesimo e dovette poi fuggire e abbandonare il trono di fronte a Guglielmo d’Orange, il quale non esitò a giurare il Bill of rigthts, ossia la costituzione che il popolo, rappresentato dal Parlamento,  aveva rispetto al re; questa lotta, iniziata con Carlo I dal 1640 e così terminata, prendeva il nome di Gloriosa Rivoluzione.

L’Inghilterra era così divenuta uno stato perfettamente costituzionale, quando il resto dell’Europa era ancora in pieno assolutismo.

La dinastia portava in sé il gene della sfortuna; non erano stati  stati solo Maria e Carlo I a perdere la testa sul patibolo;  erano stati preceduti sin dai primi  esponenti della dinastia come Giacomo I (1394-1437), figlio di Roberto III Stuart, il quale mandato diciannovenne in Francia, era stato catturato da Enrico IV d’Inghilterra e imprigionato nella Torre di Londra. Con Enrico V  fu portato come “ospite” e trattenuto nel castello di Windsor dove ebbe modo di scrivere un poema “Kingis Quair” considerato uno dei più notevoli documenti poetici della letteratura inglese dopo Chuaucer.

Soltanto nel 1424 Giacomo potette tornare in Scozia dove dovette affrontare la lotta contro i nobili ribelli dai quali venne assassinato. Fu ucciso (1437) da sir Robert Graham, su istigazione del conte di Atholl, ambedue giustiziati.

Giacomo II nato nel 1430 era stato incoronato all’età di sette anni alla morte del padre (1437);  morirà all’età di trent’anni, prendendo parte alla lotta tra le due Rose e rimanendo ucciso dalla esplosione di un cannone nel 1460.

Gacomo III  nato nel 1451 era stato anch’egli incoronato da bambino, all’età di nove anni alla morte del padre (1460). Dopo aver fatto arrestare due suoi fratelli che tramavano contro di lui, di questi, Giovanni morì in carcere in circostanze misteriose; l’altro fratello Alessandro, riuscì ad evadere recandosi  presso il re di Francia e poi in Inghilterra, dove era  riconosciuto legittimo re di Scozia.

Giacomo III dichiarava guerra a Edoardo IV (1482) ma fu battuto e  ritornando in Scozia dovette combattere contro i nobili ribelli, dai quali fu assassinato (1513). Giacomo V padre di Maria e Giacomo VI (poi I di Scozia e Inghilterra) nato un anno prima della morte del padre (1512) visse in mezzo alle lotte fratricide dei nobili scozzesi, tra partigiani dell’Inghilterra e partigiani della Francia, alle quali seguirono le lotte religiose tra protestanti e cattolici.

 

 

 

*) I Griefs erano dei ricorsi che sospendevano l’attività per la quale erano  presentati ed erano di tre specie; 1. Contro i privilegi del Parlamento; 2. In pregiudizio della religione;  3. Contro le libertà del popolo. Nel primo caso i membri del Parlamento non potevano essere imprigionati; essi erano;  la lbertà di parlare liberamente; il potere di fare le leggi, di giudicare, dare consigli. Erano legati al Corpo politico come le facoltà dell’anima sono legate al corpo dell’Uuomo. Nel secondo, consisteva nell’incoraggiamento dato ai papisti (cattolici) e alla loro religione. Il terzo, comprendeva diverse attività previste nel libro delle Tasse, imposte dalle sole prerogative reali, tra le quali, il pagamento sul tonnellaggio delle merci che era pari a uno scellino per lira sterlina di tutte le mercanzie; altre come i Monopoli, di cui vi era una inondazione di quelli dannosi 1. perché producevano la diminuzione della qualità delle merci, del sale, del sapone, del carbone, della birra ecc. e facevano alzare il loro prezzo 2. Sotto questo pretesto il commercio era messo nelle mani di poche persone. 3. Tra costoro molti erano imprigionati.

Il Grief più importante era quello della Tassa dello Ship-Money che significava danaro dei vascelli o per i vascelli; era una tassa imposta sui porti, le città ecc.,  per servire alla costruzione dei vascelli che Carlo I aveva rinnovato di propria autorità.

**) Già ricorrevano i principi poi espressi nel  Contratto sociale”  nel 1762 di Jean Jaques Rousseau.

***) Il 30 Gennaio 1649, giorno in cui era celebrata la morte del re, corrispondeva al 9 febbraio, in quanto l’Inghilterra non aveva ancora adottato il calendario gregoriano.

 

 

 

FINE